Liberismo fuori rotta

Grandi principi, comprensibili esigenze, probabili disastri. Un trittico che si addice alla vicenda Alitalia illustrata al Parlamento dal ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa. L’Alitalia perde un milione di euro al giorno e la sua crisi arriva da lontano. Precisamente dalla metà degli anni ’90 quando per rimettere a posto conti che scricchiolavano si ridussero i costi tagliando anche gli investimenti. Sulle rotte internazionali e sull’acquisto di aeromobili oltre che sui vari servizi offerti. Se un’azienda ha un debito e oltre a tagliare i costi non investe nella crescita come potrà mai risanarsi? Se tenta di farlo, muore. Ed è quanto sta accadendo all’Alitalia. E qui arrivano i grandi principi. Il mercato è la soluzione del problema, dice con enfasi Padoa-Schioppa. Bisogna far passare la quota di controllo dalle mani pubbliche a quelle del privato e, voilà, il gioco è fatto.
È questo ciò che pensano «i mercatisti», gli stessi che si affannano a ricordare che la vecchia Iri faceva i panettoni dimenticando volutamente che Motta e Alemagna erano i cognomi di due famiglie le cui aziende fallirono e non due marchi dell’Iri. Ma questa è polemica antica ed è bene metterla da parte. A chi pensa che il mercato sia la soluzione unica per la crisi della nostra compagnia di bandiera diciamo tre cose: a) l’Alitalia è già sul mercato perché è una società quotata e la maggioranza delle sue azioni è nelle mani di grandi investitori internazionali e dei piccoli risparmiatori; b) se per mercato, invece, si vuole intendere la privatizzazione dell’Alitalia, scelta possibile e non scandalosa, diventa difficile, allora, mettere al futuro proprietario vincoli potenti come quelli di cui si parla (dall’occupazione al mantenimento delle rotte in perdita); c) il mercato, quello vero, è neutrale rispetto alla natura della proprietà, pubblica o privata che sia.
Esistono privati capacissimi e privati meno capaci così come esistono società pubbliche competitive sul mercato globalizzato che macinano quattrini e dividendi (Eni, Enel, Finmeccanica e la stessa Fincantieri non ancora quotata) ed altre, come l’Alitalia, che sono da anni in perdita. Ed allora la domanda non è tanto se un grande Paese industrializzato può fare a meno di una sua compagnia di bandiera. Naturalmente possiamo fare a meno di tutto salvo poi accorgerci che siamo diventati un Paese colonizzato nella forma e nella sostanza. La vera questione sul tappeto è un’altra. Perché mai l’azionista pubblico, non può fare una grande alleanza internazionale e mettere a punto un piano industriale all’altezza della situazione? Piuttosto che fare un’offerta pubblica di vendita (Opv) del 30 per cento del capitale con annesso obbligo di Opa e di tanti vincoli che danno l’idea che la futura proprietà sarà sempre sotto tutela, il governo dovrebbe aprire una trattativa a 360 gradi con altre compagnie presenti nel mercato mondiale.
L’obiettivo dovrebbe essere non solo un’alleanza commerciale ma una vera e propria integrazione azionaria. Sul mercato vi sono compagnie pubbliche che funzionano bene come l’Air France, altre come Iberia, la cui crescita negli ultimi anni è stata rilevante, che ha un azionariato pubblico-privato e altre ancora interamente privatizzate come la British. Per non parlare delle compagnie orientali sempre più presenti sui mercati emergenti. I governi delle grandi democrazie fanno una scelta netta perché sanno che il mercato è uno strumento e che l’unica necessità è di esserci con un azionariato forte, pubblico o privato, e un piano industriale competitivo.

Gli ultimi arrivati sul fronte dell’economia di mercato, come gran parte dell’attuale governo, spesso confondono liberismo con pressappochismo creando, così, disastri societari e contenziosi infiniti che non fanno bene al Paese. Autostrade docet.

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