Libero mercato in libero Stato Il ritorno di Von Hayek

N el corso dell’ultimo secolo la contrapposizione ideologica fra il socialismo e il liberalismo ha conosciuto varie formulazioni dottrinarie. Quella di gran lunga più chiara e convincente si riviene nel pensiero di Friedrich Hayek, la cui opera più significativa ritorna in libreria: La via della schiavitù, prefazione di Raffaele de Mucci, Rubettino. Hayek, nato a Vienna nel 1899 e morto a Friburgo nel 1992, esponente di spicco di quella Scuola Austriaca che annoverò alcuni tra i maggiori economisti del tempo (Carl Menger, Eugen von Böhm-Bawer, Ludwig Mises e Friedrich Wieser), premio Nobel per l’economia nel 1974 e docente in molte università europee e americane, è oggi considerato il più grande pensatore liberale del Novecento.
Secondo Hayek il socialismo crede nella possibilità di una direzione consapevole della vita sociale; il liberalismo pensa invece che questa idea sia del tutto utopistica e si affida alla piena libertà degli individui. Per il socialismo è necessario abolire la proprietà privata e il mercato, per il liberalismo la proprietà privata e il mercato sono irrinunciabili per la libertà delle persone e lo svolgimento della vita collettiva. Il primo comporta la statalizzazione dell'economia, il secondo ritiene necessario ridurre al minimo il potere statale. In conclusione, il socialismo crede nella pianificazione, il liberalismo nel mercato.
Hayek, tuttavia, specifica in modo più preciso che la distinzione vera non è quella ideologica relativa alle diverse finalità fra socialismo e liberalismo (l’uguaglianza contro la libertà), ma quella pratica, riguardante i mezzi per attuarle. Il vero spartiacque, infatti, è fra il collettivismo e il capitalismo perché la volontà di assegnare un ruolo decisivo allo Stato nella vita economica e sociale accomuna, di fatto, fascismo, nazismo e comunismo e anche, sia pure in misura minore, quella democrazia «progressiva» abbacinata dalla superstiziosa credenza della superiorità morale del pubblico sul privato. Fascismo, nazismo e comunismo sono insomma espressioni diverse di un unico principio informatore, il collettivismo.
Pubblicata per la prima volta nel 1944, La via della schiavitù è un’opera profetica. Contro la tendenza generale del tempo - siamo in pieno New Deal - che pensava che il capitalismo «classico» fosse al suo tramonto, Hayek dimostrava (con grande scandalo di molti intellettuali dell'epoca) l'inevitabile esito totalitario e fallimentare di ogni dirigismo economico; un esito che sarà confermato dalla caduta del comunismo. Egli capì fino in fondo la logica del totalitarismo, i cui interni meccanismi muovono tutti verso un unico scopo: quello di tenere gli esseri umani in uno stato di «minorità», assegnando al potere statale il compito di una direzione superiore e cosciente della vita sociale, secondo la credenza che solo organizzando la vita sociale dall’alto sia possibile creare e mantenere un ordine politico e morale valevole per tutti. Una credenza che dimostra come, nel Novecento, la vera contrapposizione non sia stata fra la destra e la sinistra, ma fra chi ha creduto e chi non ha creduto nella libertà degli individui. La Classe, il Partito, il Proletariato, il Popolo, lo Stato, la Razza, la Storia, La Nazione, e altre simili entità trascendenti il destino delle singole persone, si sono rivelati per quello che erano: nefasti miti, perché in realtà esistono solo gli individui nella responsabile coscienza delle loro azioni.
Proseguendo nelle indicazioni del suo maestro Ludvig Mises, Hayek vede nel mercato il mezzo per eccellenza in grado di fondare e di mantenere questa libertà.

Certo, anche il mercato abbandonato se stesso produce distorsioni, irrazionalità, ingiustizie, disuguaglianze, ma esso è comunque, di gran lunga, il male minore. Con il suo ordine concorrenziale è possibile generare e raccogliere una quota di conoscenza e di ricchezza più grande di quella che potrebbe essere ottenuta e utilizzata da qualsiasi economia centralizzata.

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