Ma al Lingotto può cominciare una nuova era

Alla fine, dopo mesi di nuotata controcorrente fra onde di frasi insensate sugli ebrei, i Protocolli dei Savi di Sion, dopo le follie sulla «pulizia etnica» pretesa dai seguaci di Vattimo e le intimidazioni a Napolitano dell’intellettuale Tareq Ramadan, persona non grata negli Usa e ora anche da noi, la Fiera del libro è finalmente approdata nel suo porto naturale davanti a folle di giovani e no, ben più numerosi di quanto mi sarei mai aspettata. Gente arrivata da ogni parte d’Italia semplicemente per ascoltare degli scrittori che parlano a voce bassa di poesia, romani, milanesi, fiorentini, siciliani, una quantità di parlamentari di tutte e due le parti politiche di cui alcuni, come Luca Barbareschi, Giorgio La Malfa che sul telefonino mi chiede dove siete, Margherita Boniver, Scipione Rossi e tanti altri si fermano a sventolare la bandiera di Israele davanti ai cancelli del Lingotto, mentre scorrono sorridenti anche Giovanna Melandri, Fassino, Vernetti, Fiano.
La folla vuole entrare sin dalle prime ore, la accompagnano eroine come la professoressa Santus che, esponendosi alla possibile violenza, si avvolse in una bandiera di Israele sulle scale dell’Università. La gente si accalca alle biglietterie e si sparge nel gigantesco edificio in cui troneggia una torre di libri, circondata da miriadi di stand colorati: lo fa certo per la cultura, lo fa certo per la bellezza che, come dice il titolo della Fiera, ci salverà. Ma lo fa soprattutto per venire a sostenere l’immagine d’Israele e di chi l’ha voluta alla Fiera, il direttore editoriale Ernesto Ferrero, e Rolando Picchioni, il presidente.
Mentre arriva Napolitano respiriamo l’aria di un tempo nuovo, quello in cui la gente sa che Israele non è un paria, che il suo diritto all’esistenza è un fatto prima ancora che di legalità internazionale, di merito per essere sempre rimasto il baluardo della democrazia mentre il rifiuto arabo la costringeva a tante guerre. È chiaro, non c’è forse più nemmeno bisogno di dire la solita frase di circostanza di cui francamente non se ne può più: pur riconoscendo il pieno diritto a criticare Israele...
Ieri al Lingotto il senso di tutti i discorsi, l’aria che si è respirata durante il discorso di Napolitano, persino da prima che aprisse bocca era: smettete di odiare Israele, è un errore e un crimine. E chi ha mai impedito di criticare Israele? Anzi, è stato lo sport nazionale. Soltanto che poi queste critiche dovrebbero sostanziarsi in qualcosa di concreto, magari per spiegare che cosa avrebbe dovuto offrire Israele a Arafat perché accettasse la proposta di pace; come avrebbe dovuto andarsene dal Libano perché gli Hezbollah smettessero di odiarla; cosa c’è di sbagliato nel ritenere che una volta sgomberata Gaza sarebbe stato meglio utilizzarla per piantare pomodori nelle serre, come facevano i settler, invece che come una rampa di lancio missilistica contro Sderot.
Mentre la folla si accalca e sta per arrivare il presidente insieme all’ambasciatore israeliano Gideon Meir e a Yehoshua, Angelo Pezzana ancora martella con i suoi cari amici dentro lo stand d’Israele in cui sono in mostra l’uno vicino all’altro la messe infinita di romanzi che in questi anni, da Aleph Beth Yeoshua, che sta arrivando e parlerà alla folla, a Zruia Shalev, una scrittrice magica e segreta, che in piedi nello stand guarda incredula tutti questi italiani che festeggiano Israele sotto un gran bandierone bianco e azzurro. Quando qualcuno chiede a Yehoshua del boicottaggio, la folla fa un ululato di impazienza che dice «il boicottaggio non esiste, non è degno di esistere. Torniamo a parlare di Cechov come faceva Yehoshua fino a un momento fa, dell’importanza delle piccole cose nell’ispirazione di uno scrittore».
Yehoshua risponde che adesso esiste lo Stato palestinese (probabilmente si riferisce agli accordi di Annapolis) e promette che verrà certamente a visitare i palestinesi se il loro nuovo Stato sarà scelto come ospite. Anche lui, con il quale abbiamo passato tante ore, e che ha fatto della parola «pace» un mantra, sa che le delusioni degli anni passati hanno un titolo principale: rifiuto islamista, estremismo, terrore. Sa che poche ore fa Shimon Peres ha ripetuto durante la cerimonia in memoria dei caduti d’Israele il sogno di «far sorridere i bambini israeliani e palestinesi», ma ha anche detto che le cose si fanno sempre più difficili nel tempo. Anche Buli, così chiamano Yehoshua gli amici, lo sa. Certi toni polemici di un tempo contro l’establishment del suo Paese non avrebbero più senso, e non li sentiamo più. Sono lontanissimi anche dal discorso di inaugurazione di Aharon Appelfeld, che con la sua piccola voce ha comunicato anche a chi non sa l’ebraico il mare di emozioni che promana dalla lingua di Abramo oggi risorta, come nuova.
Ho l’impressione che ormai la gran parte della gente sappia che Israele ci prova sempre a far la pace anche scrivendo libri che tutto il mondo ama. Un tempo amare Yehoshua o Grossman si sovrapponeva a una critica pacifista a Israele. Anche questo è tramontato.

E da quello che si è visto qui, dall’accoglienza che ha ricevuto Napolitano, dalla folla che al ristorante si spingeva per un piatto di insalata, si può dire tranquillamente: può cominciare una nuova epoca e la Fiera può essere il suo trampolino.

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