Il look da ufficio non usa più

di Eleonora Barbieri

Ti giri, e la collega è in infradito. Ti giri dall'altra parte, e la capa ha i sandali Birkenstock (senza le calze, come i turisti teutonici, ma pur sempre quelli lì. Comodissimi, chi lo nega). Ci sarà almeno quel collega elegante, sempre in giacca e cravatta. Ma va: forse fa troppo caldo, e la camicia ha il colletto slacciato. L'altro, non ne parliamo: ha una maglietta. Ormai vale tutto, anche alla scrivania, o dietro lo sportello in banca e alla posta, in negozio forse un po' meno, al supermercato hanno la divisa e vabbeh, ma chissà la segretaria del notaio, o la manager nel suo ufficio senza porta a vetri... Ormai, ha notato anche il New York Times rimpiangendo certi vecchi film-icona, con quelle belle donne cotonate in tailleur e i maschi impeccabili, è «la fine del dress code da ufficio». Non esiste più canone, regola da rispettare: altro che Friday style, lo stile casual e meno rigido concesso (fino a pochi anni fa) soltanto al venerdì, in vista del weekend; il venerdì è tutti i giorni, anzi, spesso è quasi una domenica d'agosto in spiaggia, fra pantaloncini, magliettine velate, pantaloni a mezza gamba e perfino qualcuno in camicia hawaiana a mezza manica. Che dire? Manca il capoufficio in canottiera alla Bossi, ed è fatta.

Però no, non è così semplice e, soprattutto, la questione non è solo estetica (non è che sia un «solo» da poco, per la verità...): ciò che rende problematica la fine dell'abbigliamento da ufficio è la sua ricaduta esistenziale, se così si può dire. Cioè: la fine del dress code fatto di un certo abbigliamento preciso, curato, spesso definito nei particolari (un certo colore, una certa giacca, una gonna di una certa lunghezza), nella convinzione che l'aspetto del dipendente sia l'immagine dell'azienda stessa, e ne rispecchi i valori e le qualità, ecco, la fine di tutto ciò è strettamente collegata alla convinzione, ormai ben più diffusa, che la libertà del look coincida con quella di espressione personale. Che l'abito sia, insomma, un prolungamento del sé: una questione identitaria. Ed è una idea che ha le sue basi, anche, nell'evoluzione della moda degli ultimi anni, e dell'immagine: perché in un mondo in cui un certo vestito veicola un certo messaggio, in cui anche un marchio di shampoo indica che «tu vali», in cui una certa scarpa significa appartenenza, in cui un orecchino è ribellione, allora dire a un dipendente che deve indossare una camicia anziché la t-shirt o una gonna al ginocchio anziché la mini, o i tacchi alti e non le ballerine (è successo a Londra, dove l'impiegata ha fatto subito causa) può sembrare immediatamente come una limitazione della libertà.

Peggio, talvolta, come una discriminazione: perché le donne devono portare i tacchi? Perché questa regola deve valere solo per loro? Insomma non è solo una questione di vestiti, ma di indipendenza e di identità. Qualcuno dirà: è questione che ti devi vestire decentemente, se devi venire qui a lavorare. Vero. Però parliamone con calma fra un attimo, adesso mi è caduta l'infradito, che la stavo dondolando sotto la scrivania...

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