"L'uomo è tornato al centro dell'universo con gli strumenti della fisica quantistica"

L'allievo di Hawking racconta vent'anni di indagini condotte insieme sul Big Bang: "La nostra è la rivoluzione darwiniana della cosmologia: sono le leggi a evolvere"

"L'uomo è tornato al centro dell'universo con gli strumenti della fisica quantistica"

Il cosmologo Thomas Hertog è nato a Lovanio, in Belgio, nel 1975. Dopo il dottorato a Cambridge con Stephen Hawking, ha collaborato per vent'anni con il genio della fisica all'elaborazione di una nuova teoria del Big Bang. È stata l'ultima ricerca dello scienziato inglese, condotta fino alla morte, il 14 marzo di cinque anni fa. Quello che hanno scoperto, Hertog lo racconta in Sull'origine del tempo. Il mio viaggio con Stephen Hawking dentro il Big Bang, un saggio (Rizzoli, pagg. 428, euro 19) che presenterà al festival della scienza di Cambridge il primo aprile. Risponde via zoom da Lovanio, dove insegna alla Katholieke Universiteit Leuven: «La città dove è stato inventato il Big Bang» scherza, ricordando che lì, nel 1931, padre Georges Lemaître formulò la sua teoria sull'origine dell'universo.

Quando ha incontrato Hawking per la prima volta?

«Come racconto nel libro, nel 1998 gli studenti coi risultati migliori vennero invitati ad andare a trovare Hawking, il quale avrebbe deciso se fare un dottorato con qualcuno di loro».

E così fu scelto per il dottorato... L'argomento?

«Era l'epoca in cui molti cosmologi parlavano del multiverso: l'idea che ci siano tanti universi diversi era attraente, perché sembrava offrire una spiegazione del perché il nostro universo sia così adatto alla vita. È l'antica domanda: come è che ci siamo anche noi nell'universo?»

Senza risposta...

«Prima di Galileo, si metteva l'umanità in una posizione molto centrale nel cosmo; ma, dopo la rivoluzione scientifica, sembrava che non esistesse più un posto speciale per noi e che le leggi della fisica non avessero niente a che vedere con noi. Ma allora, perché dal Big Bang è emerso un universo biofilico, dove, nel giro di qualche miliardo di anni, la vita è diventata possibile? Questa è la domanda, profondamente umanistica, sottesa all'intera carriera di Hawking».

Umanistica nel senso rinascimentale del termine.

«Assolutamente. Hawking era uno di quei rari fisici disposti a lasciarsi guidare da questa domanda profondamente umana. Però la indagava utilizzando gli strumenti della fisica teorica contemporanea: ed è una domanda interessante, dal punto di vista della fisica, perché spinge la fisica stessa ai suoi limiti».

Il multiverso non funzionava?

«In quegli anni sembrava una spiegazione nuova: nessun disegno, nessun progetto, il Big Bang è una casualità, esistono molti altri universi con il loro Big Bang, la maggior parte privi di vita, mentre noi ci troviamo in uno dove è emersa la vita... Ecco, Stephen stava pensando a quello, quando sono entrato nel suo studio e credo che, già allora, nutrisse dei dubbi su questa idea».

È su questo che avete lavorato?

«Esatto. Perché è nel Big Bang che le proprietà delle leggi della fisica hanno origine. Se vuoi capire la vita, la chimica, le galassie, le tre dimensioni, devi capire il Big Bang».

Perché avete elaborato un metodo diverso per studiarlo, un approccio quantico?

«Questo è un punto chiave. Abbiamo sviluppato un modo quantico di pensare al Big Bang perché esso consente di guardare all'universo dall'interno, è una prospettiva alla rovescia: l'osservatore non è all'esterno, bensì gioca un ruolo in come la realtà intorno a lui si manifesta. E questo ci porta a ripensare la cosmologia più da un punto di vista umano».

In un certo senso, come prima della rivoluzione copernicana?

«È lo stesso punto di vista, ma con gli strumenti e le intuizioni della fisica moderna. La rivoluzione scientifica è stata un grande successo, avvenuto però al prezzo di un punto di vista archimedeo: uno stare al di fuori, da dove puoi avere un punto di vista oggettivo e assoluto. E va bene, eh... Tranne quando poni la domanda sul nostro posto nell'universo, perché non puoi porti al di fuori».

Ed è così che, un giorno, Hawking le disse che Breve storia del tempo, il bestseller che lo aveva reso la star della fisica, era sbagliato?

«Sì, perché era stato scritto dalla prospettiva sbagliata. Lo disse come se non fosse niente di speciale... È una cosa divertente ma è, anche, come la scienza funziona».

Com'è questo universo, quindi?

«Quando guardiamo indietro al Big Bang con questa prospettiva quantica, scopriamo qualcosa che è indicato nel titolo, Sull'origine del tempo. Che è costruito sul titolo del capolavoro di Darwin, Sull'origine delle specie».

Che significa?

«In quegli stadi iniziali scopriamo un livello ancora più profondo dell'evoluzione, in cui le leggi della fisica si evolvono insieme con questo universo primigenio, che prende forma. Ci sono salti quantici, che sono delle variazioni, e una sorta di selezione: l'atto costante dell'osservazione, ovvero l'universo che osserva sé, e scolpisce la sua stessa storia e le leggi reali della fisica. È la rivoluzione darwiniana nella cosmologia: l'evoluzione di Darwin al livello delle leggi della fisica».

Perciò queste leggi non sono assolute?

«Esatto. Ci sono due conseguenze. Primo: le leggi sono il risultato dell'evoluzione, che ha componenti casuali; quindi potrebbero essere diverse. Da lì si è formato un albero delle leggi della fisica, come quello dell'evoluzione e, poi, queste leggi si sono cristallizzate, diciamo così, diventando lo strato fondativo di tutti gli altri strati dell'evoluzione».

L'altra conseguenza?

«Più ci avviciniamo al Big Bang, più la vita scompare e, quindi, anche le leggi scompaiono: dobbiamo pensare al Big Bang come al limite, all'orizzonte oltre il quale non ci sono né il tempo, né le leggi della fisica. La capacità delle leggi di cambiare sembra essere molto più fondamentale delle leggi stesse».

Se esiste un albero delle leggi, che è lo strato fondamentale per gli tutti altri strati della vita, l'universo è qualcosa di unico, come un organismo?

«Sì e no. Sì, perché questa teoria evoca una sorta di unità nella natura. Però il linguaggio in cui facciamo fisica e biologia e descriviamo queste leggi è molto diverso. Comunque questo è il motivo per cui Hawking mi disse che, con questa teoria, aveva rimesso il genere umano di nuovo al centro: non come ai tempi antichi, come summa dell'esperienza, ma in termini di prospettiva».

Hawking era soddisfatto di questa teoria?

«Secondo me sì. Dal multiverso era impossibile fare previsioni non ambigue; e una teoria ti deve dare una previsione chiara, per poterla verificare. Perciò Hawking ne era infastidito. Poi, lui stesso aveva proposto un modello matematico per creare l'universo dal nulla, ma questo modello dava come risultato un universo vuoto, senza stelle e senza galassie».

Quindi?

«Quindi quei modelli non erano buoni, mentre questo funzionava meglio. Quanto alle conseguenze filosofiche di essa, credo gli interessassero meno».

Scrive: «La storia dell'universo dipende dalla domanda che poni».

«In senso metaforico è così: l'osservazione quantica, collettiva, fatta dai singoli fotoni o dall'ambiente, scolpisce continuamente la storia tangibile dell'universo stesso, a partire da una serie di possibilità».

Che tipo di storia è?

«Più nebulosa. In cui non ci sono spiegazioni aprioristiche o deterministiche, perché così è la scienza: è cercare delle correlazioni fra parti diverse del mondo fisico, per comprendere a livello più profondo la coerenza e i legami dell'universo, perché è lì che si trova la predittività».

Che tipo di ambiente era quello del gruppo di Hawking a Cambridge?

«Da un lato estremamente informale, e anche esoterico. Dall'altro, estremamente ambizioso. Hawking aveva un ottimismo enorme, nella vita e nella scienza, ed era convinto che potessimo affrontare questa profonda domanda cosmologica, e comprenderla. E che fosse essenziale per il futuro a lungo termine dell'umanità».

E poi c'era il momento del tè.

«Fondamentale. Hawking era molto inglese, in quello.

Tutti quanti avevano un bisogno disperato di tè a un certo punto: la fisica teorica ha una componente creativa, in cui devi lasciar andare la tua immaginazione, e il momento del tè funziona benissimo. C'è anche a Princeton, e l'ho adottato anche qui a Lovanio...»

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