Macché razzisti un po’ di equità è necessaria

Come spesso le accade, la Lega propone, con piglio piuttosto grossolano, temi sui quali subito s’accanisce, per deplorarne l’impostazione, la superciliosità dei politicamente corretti. Ma dietro l’incontinenza verbale di alcuni esponenti del Carroccio stanno nella maggioranza dei casi, riconosciamolo, veri nodi e vere carenze delle istituzioni pubbliche. S’è ad esempio parlato di «cultura razzista» per un presunto esame di dialetto che la Lega avrebbe voluto imporre ai professori. Alla notizia è seguita la smentita. Niente esame di dialetto, solo un «test di tutela e valorizzazione del territorio». La precisazione m’interessa poco. M’interessa molto, invece, il sottofondo della questione.
La scuola appartiene all’amministrazione dello Stato: occupandovi una posizione primaria sia per il numero dei dipendenti sia per la caratura sociale, morale, culturale del compito che le è affidato. Non si commette sacrilegio, né si vuole offendere qualcuno, affermando che l’amministrazione italiana non è lo specchio del Paese. È prevalentemente lo specchio delle fasce sociali d’alcune regioni del Paese, regioni - non quelle a tasso civico più elevato - che infoltiscono i ranghi della burocrazia. Questa distanza - per usare termini di largo uso e anche abuso - tra Paese reale e Paese ufficiale crea disagio in tutte le strutture pubbliche: ma lo crea particolarmente in quelle - la Giustizia e la Scuola - che hanno un impatto profondo sulla vita della collettività come sulla vita degli individui. Credo non si possa e non si debba negare che i cittadini del Nord abbiano a volte la frustrante sensazione d’entrare in contatto con un universo estraneo e remoto quando hanno a che fare con la legge o con l’insegnamento.
Vi sono certamente, nei militanti leghisti, pregiudizi sbagliati e richieste inaccettabili. L’attaccamento ai dialetti e le battaglie per la loro sopravvivenza sono sacrosante finché rimangono nell’ambito culturale. Suonano false, a mio avviso, se vogliono perpetuare nell’uso comune realtà linguistiche in declino che hanno il loro maggiore ostacolo negli immani trasferimenti di popolazione avvenuti in Italia dalla fine della seconda guerra mondiale in poi. Queste battaglie sono secondo me sterili anche quando sono legittime, nessuna imposizione ha potuto impedire che l’inglese soppiantasse il francese come lingua internazionale. Mi pare tuttavia ragionevole chiedere che i presidi e gli insegnanti delle scuole d’una regione ne conoscano il costume, la cultura, la storia: e ne condividano i valori.
Il forte prevalere di giudici, professori o maestri del Sud nei «palazzacci» e nelle scuole del Nord, rimarrebbe spiacevole ma sarebbe spiegabile se corrispondesse ad una miglior preparazione di chi dal Sud arriva, e frequentemente spasima per ritornarvi presto, ad impinguare uffici e cattedre già ad organico stracolmo. Invece tutti sappiamo che non è così, e che lo Stato cieco, sordo e un po’ stupido non valuta i diplomi e le lauree in base agli istituti che li hanno dispensati, si ferma all’ufficialità del voto. E le lauree con lode sono, in certi atenei, la regola: così come sono regola in determinate regioni le promozioni negli esami professionali.

Vogliamo fingere che tutti questi motivi di perplessità e di malcontento non esistano e affidarci agli afflati retorici di questo o quel ministro, o viceministro, o sottosegretario? O non è meglio riconoscere che l’intemperante e spesso insopportabile Lega ha almeno il merito di rompere le barriere del comodo burocratese e di esigere verità anche scomode?

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