La magica visione di Yeats

Nelle ultime liriche il poeta irlandese sfida la concezione nichilista del mondo

In Lapislazzuli, lunga composizione scritta pochi anni prima della morte, William Butler Yeats (1865-1939) irlandese, premio Nobel 1932, manifesta trionfalmente quanto semplicemente la potenza visionaria e rivelante della poesia. Si tratta di uno dei momenti epocali della poesia, quando si manifesta come un’epifania e assomma in una composizione, coagulata in versi costituenti un nuovo, immarcescibile corpo, pensieri e dilemmi millenari, accostando con l’apparente naturalezza del miracolo civiltà lontane. Qui, in questa lirica ispirata a una piccola statua cinese di lapislazzuli, dove due vecchi compaiono accanto a un uccello, il grande Yeats mette in scena il dramma dell’Occidente, nella suprema rappresentazione di Shakespeare, nelle figure di Amleto e re Lear, Ofelia e Cordelia. E nella recita tragica scopre l’ilarità della rappresentazione, il segreto di Shakespeare e dei grandi drammaturghi, che mettendo in scena il dolore lo combattono. Questo, che per gli occidentali è un segreto concesso agli alchimisti massimi, cioè ai colleghi di Shakespeare, in Oriente è atteggiamento diffuso: la comunione con il mondo genera naturale levità e letizia, l’uomo si libera dal dramma nascendo: «I loro occhi, fra le tante rughe, i loro occhi,/ i loro vecchi, luccicanti occhi, sono lieti». In questa memorabile poesia che partendo da un oggetto elaborato dall’uomo ci conduce nel suo, la Cina di Kublai Khan e Marco Polo, nel nostro, nel mistero della pietra preziosa e della lavorazione della pietra, fino al confine insostenibile tra forma e apparizione, noi abbiamo una rappresentazione esemplare del dilemma umano, vediamo i secoli e i paesi d’incanto, evocati nella parola magica. Questa magia anima le poesie che Yeats scrisse sentendo prossima la morte, e paiono realmente una risposta di resistenza al decesso, una manifestazione esplicita della parte immortale dell’uomo, del suo spirito. In questa impresa finale e luminosa il poeta cerca anche una memorabilità facile ai suoi versi, evoca la ballata, aspira a una contabilità semplice, a quella naturalezza che solo ai grandi è consentita. L’alchimia e i suoi segreti fanno parte del mestiere del poeta, ma gli esiti non devono manifestare nulla di oscuro: Yeats cerca esplicitamente, e raggiunge un’apparente leggerezza che rende la poesia accessibile come un fiore, che chiunque può capire nella sua quintessenziale bellezza e nel profumo che cela i misteri del calamo e la geometria segreta della corolla. Le ultime poesie di William Butler Yeats (Rizzoli, pagg. 508, euro 10; a cura di Anthony L. Johnson, traduzione di Ariodante Marianni) rappresentano quindi un momento memorabile della poesia e della spiritualità di un secolo controverso come quello appena trascorso, dove Yeats svetta per limpidezza di pensiero, per fedeltà a una visione magica e non nichilista del mondo.

Angosciante, la mole delle note, che, dopo esaurienti introduzioni, schiacciano i versi nella pagina: accanto a annotazioni utili, ve ne sono di superflue e anche, a mio parere, depistanti: la sovrabbondanza di dati biografici, minimi, finisce per confondere il lettore di fronte all’evidenza lampante dei versi. Ma, a parte questo eccesso di zelo, preferibile certo alla sciatteria, il libro è di quelli da non perdere.

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