Manovre e figuracce: così il Pd si è umiliato per piazzare a Torino il disoccupato Fassino

«Dovrebbe mangiare più panettoni» gli aveva mandato a dire Silvio Berlusconi ironizzando sulla sua magrezza. Era il 2002 e a Piero Fassino la battuta andò di traverso come a volte l’uvetta, ma dev’essergli stata di buon auspicio, se anche quest’anno il panettone riuscirà a mangiarlo, almeno in senso figurato. La poltrona infatti è pronta, un’altra volta l’ultimo leader dei Ds può tirare un sospiro di sollievo. Peccato che, con lui, anche il centrodestra a Torino possa fare altrettanto: era preoccupato, il Pdl ancora in cerca di un candidato, perché vallo a trovare uno in grado di contrastare Francesco Profumo, rettore di quel gioiello che è il Politecnico, un curriculum d’eccezione fra le cattedre di Stati Uniti e Giappone passando per l’Est Europa, sul piatto relazioni personali pure internazionali. Vallo a trovare ma niente paura. A dispetto del rispetto, Profumo il Pd lo ha fatto fuori in un amen. Perché alla fine, qui in casa democrat vincono sempre loro. Quelli che Matteo Renzi vorrebbe rottamare e che invece per quanto vuoti non sono mai a rendere.
Fassino ha puntato i piedi, e Sergio Chiamparino l’attuale sindaco ci ha messo un attimo: Profumo? Troppo esterno. Arrivederci e grazie professore, baci e saluti, la guerra di Piero è già vinta. Potenza delle radici, anni e anni nel Pci in una Torino industriale e sindacale e di immigrati, lotte comuni in fabbrica e nel partito. Sergio Chiamparino, Piero Fassino, Cesare Damiano. Piero che tirò la volata a Cesare alla segreteria Pd, Cesare che non ha perso tempo a fare l’eco a Chiamparino: «Profumo? Il tempo della riflessione è finito, serve una soluzione rapida». E dire che era stato «il Chiampa» a fare il nome del rettore. È che poi Fassino ha puntato i piedi. Anzi, pestato i piedi. Nel cortile di Montecitorio per l’esattezza, dove è stato visto sfogarsi con Bersani e D’Alema contro quella candidatura dalla società civile, esterna al partito, proprio nella sua città. Un affronto cui si aggiunge, ormai da anni, la solita missione: trovare un posto a «filura», come lo chiamano in piemontese, fessura, per dirne la sagoma di un metro e novantadue centimetri per sessantasei chili.
Il dilemma del «che facciamo fare a Piero» si protrae da quando sciolse i Ds nel Pd, ritrovandosi senza seguito né incarico. Lo promossero «inviato speciale dell’Unione Europea per la Birmania», alla Camera lo si vedeva aggirarsi inquieto, frustrato dal sempre più vano tentativo di farsi intervistare dalle telecamere che un tempo lo inseguivano e a un tratto, impietose, hanno preso a evitarlo. Che si tratti di cavallo vincente poi è un altro paio di maniche. L’ultima volta che s’è cimentato a casa sua, tanto per dire, Fassino ha perso maluccio. Era il 2009 e Gianfranco Morgando vinse la sfida per la segreteria regionale del Pd contro il pur ex ministro del Lavoro Damiano, che alle primarie correva per la mozione Franceschini, qui non troppo degnamente rappresentata, appunto, da Fassino. Non è un caso che, appreso che dalla porta girevole del Pd è uscito Profumo ed è entrato Fassino, Renzi e Civati i «rottamatori» hanno dissotterrato l’ascia di guerra, annunciando la candidatura alle primarie di un «amministratore locale», perché «è l’ora di finirla con le scelte imposte dall’alto». Stesso annuncio bellicoso ha fatto la Sinistra di Vendola, il cui proposito è far fare al Pd torinese la fine di quello milanese, come direbbe Corrado Guzzanti: «Il Pd è il primo partito in Italia a usare le primarie e il primo partito al mondo che le perde».

Lui, Fassino, l’ha messa da salvatore della patria: «Ho dato disponibilità di principio alla candidatura a sindaco di Torino ma subordinata a verifica di condizioni concrete».
C’è un proverbio in Piemonte che dice così: «L’aria ’d filura a pòrta l’òmo en sepoltura». Il Pd incrocia le dita.

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