COME LA MARCIA DEI QUARANTAMILA

«E se la chiamassimo la strage di via Epifani?». C’è anche il lettore spiritoso. E poi c’è quello infuriato, quello sdegnato, quello sgomento. Ce ne sono di tutti i tipi fra le centinaia e centinaia che in queste ore hanno fatto arrivare in redazione messaggi in ogni modo, via mail, telefono o posta tradizionale. Tutti hanno in comune una cosa: condividono la denuncia contro i mandarini del sindacato kamikaze. C’è chi si sfoga, chi s’interroga, chi propone misure drastiche, chi chiede di ripubblicare le inchieste sul giro d’affari della Cgil, che come sapete custodisce i bilanci come il Vaticano il segreto di Fatima. Qualcuno propone addirittura uno sciopero contro i sindacati, una specie di nemesi storica, di impraticabile legge del contrappasso all’insegna del «chi di cobas ferisce di cobas perisce».
I messaggi arrivati in redazione, d’altra parte, combaciano alla perfezione con quello che si respira nel Paese, nelle strade delle città, sui tram, nei bar, fra la gente comune, fra le persone normali, quelli per cui il giorno dura sempre 24 ore (mica come i piloti che possono farlo diventare di 33 ore), quelli che non vanno a lavorare con l’autista mandato dall’azienda e faticano a farsi retribuire quando restano in fabbrica fino all’ultimo minuto, figurarsi se c’è qualcuno che paga loro pure i giorni di riposo.
Anche i sondaggi lo confermano: per la maggior parte degli italiani la colpa del fallimento della trattativa Alitalia è della Cgil e dei piloti. E con buona pace degli affannosi proclami di Fassino (ma non doveva occuparsi della Birmania?) e di Veltroni in gita a New York (ma non doveva occuparsi dell’Italia?), solo il 10 per cento degli intervistati addossa qualche responsabilità al governo. Chissà che stupore per i bonzi della cloche dorata. Ma in realtà si stupiscono solo loro: agli altri è abbastanza evidente che ormai i sindacati non li comprende più nessuno. Sono lontani dal Paese, non lo capiscono e non si fanno capire, parlano un linguaggio esoterico e sconosciuto.
L’altra sera sono capitato in mezzo a un dibattito sull’Alitalia in cui c’erano tre di loro: mi sembrava di essere un marziano piovuto per sbaglio a Trastevere. Li ho sentiti arrampicarsi sugli specchi dei loro formalismi, li ho visti specchiarsi dentro le circonlocuzioni che nascondono il loro nulla. Alla fine si dipingevano sempre come eroi, generosi condottieri, salvatori della patria. A un certo punto, mi chiedevo: ma ci sono o ci fanno? Sanno quel che dicono o ci stanno prendendo in giro?
E ho realizzato di colpo che lo choc dell’Alitalia forse potrebbe diventare un bene per il Paese. Come lo fu la marcia dei quarantamila a Torino, come lo fu lo sciopero dei minatori per la Thatcher. Può essere il punto di svolta, il momento di non ritorno, il vero cambiamento del Paese. Fateci caso: i sindacati hanno perso definitivamente la faccia, il loro consenso è crollato. Hanno dimostrato la loro vera natura: sono marajah, una casta, boiardi iperprotetti con tendenza al parassitismo, privilegiati che arricchiscono le loro organizzazioni alle spalle del sistema senza mai difendere i più deboli. Anzi, il più delle volte danneggiandoli.
La dimostrazione sta in quelle scene di giubilo esplose alla notizia del fallimento delle trattative. Immagini che oggi riepiloghiamo in un’apposita pagina: sono da staccare e conservare perché resteranno nella storia del Paese. Voi avete mai visto operai che festeggiano perché la loro fabbrica sta chiudendo? Tute blu che esultano quando lo stabilimento viene smantellato? No? E allora perché, invece quei bei figurini imbustati dentro tailleur e divise d’ordinanza si sganasciavano dalle risate? Per un motivo semplice: speravano (e sperano) nell’intervento dello Stato. In fondo per decenni è sempre stato così: loro si rimpinzavano di privilegi, piatto ricco mi ci ficco, menu da business class. Tanto poi il conto l’abbiamo sempre pagato noi.
Ecco perché facevano festa l’altro giorno. Perché temevano che con il piano Cai la pacchia sarebbe finita. Addio all’era dei vizi rimborsati dal contribuente a piè di lista. E si illudevano, al contrario, con il fallimento delle trattative, di poter contare ancora sull’intervento pubblico, sui soldi di papà Stato, su una giravolta in stile Iri, magari addirittura una nazionalizzazione. Ma ciò non accadrà. Non può e non deve accadere. Il ministro Tremonti ha escluso subito ogni possibilità di questo genere. E ha fatto bene, anzi benissimo. Gli italiani non capirebbero una scelta diversa. Non accetterebbero di mettere mani al portafoglio per consentire ai privilegiati di continuare a godere dei loro privilegi. Non sopporterebbero neanche un euro di tasse per la messa in piega perfetta di quella signorina che esultava di fronte al crac.
Fra le lettere che sono arrivate ieri in redazione, oltre a quelle sdegnate, infuriate e sgomente, ce n’era anche una molto sofferta. Ce l’ha scritta un ingegnere, piccolo imprenditore in edilizia da 28 anni, settore restauro ed edifici storici. Ha 10 dipendenti, 4 di loro lavorano con lui da 25 anni. Mai una sanzione fiscale e amministrativa, nessun incidente sul lavoro, mai un giorno di ritardo nel pagamento di salari e contributi. Lo scorso 8 settembre ha dovuto chiudere. «La resa», la chiama lui.

«Tutti in cassa integrazione per mancanza di commesse, tutte scippate da concorrenti fuori dalle regole. Protezioni sociali: una miseria per sei mesi. Per i dipendenti dell’Alitalia si prevedevano 7 anni di cassa integrazione». Lui dice di essere senza parole. Anche noi.

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