«Maria Stuarda» Una festa condita da fischi

da Milano

Oh, le belle serate dei bei tempi! Come sono? Beh, in quelle della Scala spesso si cantava meglio di oggi. E l'interpretazione? Ce ne furono di tanto memorabili; ma in genere erano eccezioni e ricordo che fremevo sentendo sciorinare col passe partout della convenzione partiture che avrebbero richiesto scelte precise, impegno accanito, fantasia.
Alla Scala, con Maria Stuarda di Donizetti abbiamo un modello delle serate medie d'una volta. Una compagnia di cui difficilmente si può cantare meglio: Mariella Devia, la Stuarda, emette frasi meravigliosamente tornite nel registro acuto e anche in quello medio, con l'autorità della grande protagonista conquistata sul campo; Anna Caterina Antonacci, Elisabetta, esprime in ogni nota l'inquieto tormento del suo personaggio; Francesco Meli ostenta una squisita tenorilità; Simone Alberghini è ineccepibile e nelle parti di fianco Paola Gardina e Piero Terranova sono eccellenti. Se si pensa che la seconda compagnia (sentita all'anteprima) ha per protagonista Irina Lungu con lei Maria Pia Piscitelli e Dario Schmunk, questo sì che un insieme da Scala.
Però l'opera che offrirebbe oggi tante scoperte, tanti stimoli, resta nobile e inerte, musicalmente e teatralmente succedono solo le solite cose. Con Antonino Fogliani i tempi sono a comodo dei cantanti, e dato che Mariella Devia nei punti più drammatici introduce suadenti acuti per la gioia sua e degli ammiratori approfittando del fatto che la partitura prescelta cerca di rievocare quello che Donizetti concedeva alla grande Maria Malibran alla Scala (ci sono anche parti aggiunte, con una inutile sinfonia), siamo continuamente fermi. Fogliani, che ha qualità, dirige all'inizio con piglio e poi sempre più lentamente: un tagliente coro di condanna storica contro il potere della Regina Elisabetta diventa un interminabile molle lamento, una violenta confessione della regina cattolica al suo sacerdote, con l'inabissarsi della voce e il disperarsi, sembra un idillio gentile.
Anche Pier Luigi Pizzi ha stranamente poca fiducia nella drammaturgia di quest'opera. Toglie esterni ed interni, per far sentire l'oppressione che incombe sulle due regine, ci fa intravvedere soltanto un momento una foresta, ma ritiene che sia meglio tenere tutto in una grande, collaudata prigione-gabbia, facendo andare su e giù per pedane inclinate con mosse da atletici indossatori giovani mimi neri, e all'eleganza partecipa anche il boia. Va da sé che i costumi sono magistrali, e una redingote avorio con calzoni neri e dentro l'Antonacci con frustino potrà tornare a lungo nei nostri sogni.

Ma questa volta lo spettacolo fermo e decorativo non è bastato: a Pizzi e al direttore con applausi, son toccati dissensi. Per i cantanti invece festa, per la Devia ovazioni; per Donizetti, ammirazione troppo quieta: ma in quella sua lettura del dramma di Schiller, nel 1834, aveva messo in gioco molto di più.

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