Marina Nemat: "Inutile fidarsi, vogliono solo che non se ne parli"

«La sofferenza di Sakineh, l’ho vissuta sulla mia pelle, non la potrò mai scordare. In quelle galere la morte non è la cosa più terribile. Una vita in cui possono frustarti, violentarti, torturarti, in qualsiasi momento è un universo d’insopportabile, insostenibile dolore. In quelle condizioni preferisci crepare pur di non venir più seviziata. Implori di morire pur di non venir nuovamente umiliata. Speri di chiudere gli occhi pur di non veder altri tuoi amici morire».
Marina Nemat l’orrore di Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna iraniana condannata alla lapidazione per adulterio, l’ha vissuto 28 anni fa. Era il 1982, lei aveva 16 anni e Khomenini era pronto a far piazza pulita di tutti nemici. Pronto a spedire al patibolo anche una ragazzina colpevole solo di essere cristiana e di aver criticato la rivoluzione islamica sul giornalino del liceo. Quelle poche righe costarono a Marina Nemat una condanna a morte, anni di carcere e torture. Per evitare il patibolo e riconquistare la liberta dovette concedersi al suo inquisitore, rinnegare la propria religione, convertirsi all’Islam, sposare il proprio aguzzino. Poi il destino mise fine alla vita del padre-padrone e lei poté fuggire in Canada, incominciare una nuova vita, mettere mano, 25 anni dopo, alle memorie di «Prigioniera a Teheran». In quel libro tradotto in 13 lingue Marina Nemat ripercorre gli orrori del carcere, rivive le paure di chi come Sakineh si sveglia ogni giorno con il terrore del boia. Paure e ansie che rivivono in questa intervista al Giornale.
«In quelle condizioni sei totalmente traumatizzato, il tuo cervello smette di funzionare. Non puoi più riflettere sul passato o sul futuro. Vivi uno choc perenne. Quando dopo anni esci da quell’inebetimento sei come un soldato sopravvissuto. Non dormi più, passi da un incubo all’altro, sei incapace di affrontare la quotidianità. Per Sakineh è anche più dura. Nell’ultimo mese non ha sofferto solo il terrore dell’esecuzione, ma anche torture e frustate. E alla sua infinita tristezza si aggiunge quella dei figli. Non dimenticatevi di loro. Anche loro devono esser fatti uscire dall’Iran, da quel paese diventato prigione ed incubo.
Oggi le autorità iraniane dicono di voler rivedere la sentenza. C’è da crederci?
«Sono specialisti nel manipolare e travisare la realtà. Io l’ho imparato sulla mia pelle. Quand’ero in galera le cose prima miglioravano, poi tornavano come prima. Fa parte del gioco. Leggetevi il comunicato. Dicono di voler rivedere l’accusa d’adulterio, ma aggiungono di voler esaminare meglio l’ipotesi d’omicidio. Non a caso quell’imputazione è saltata fuori non appena è scattata la pressione internazionale. Se molliamo la presa rischiamo di svegliarci e scoprire che Sakineh è stata graziata per l’adulterio, ma spedita al patibolo per aver ucciso il marito. Anche se non esistono prove. Anche se è tutto falso. Per salvarla dobbiamo continuare a lottare».
Sakineh è una poveraccia, perchè dovrebbero volerla morta a tutti i costi?
«Voi non capite, ragionate con la logica di chi vive in paesi dove valgono il diritto e la legge. A Teheran contano la forza, la vendetta, il potere arbitrario. Torturare, uccidere, lapidare Sakineh è un mezzo come un altro per imporre il controllo sulla società. Specialmente ora. Manifestazioni e proteste hanno spaventato il regime e lui reagisce con violenza per salvaguardare il proprio potere. Costringere le donne a rispettare le regole, vietar loro di uscire, imporre velo ed hijab serve a dimostrare che il potere è ancora egemone e nessuno deve sfidarlo. Far capire che chi non obbedisce rischia di morire tra atroci sofferenze serve a disinnescare la voglia di rivolta. Per questo le donne sono nel mirino. Per questo Sakineh è il capro espiatorio delle debolezze del regime».
Perchè proprio lei?
«Sakineh non è la sola, è l’unica per cui ci battiamo. In Iran ci sono almeno 12 donne condannate alla lapidazione. Ogni anno si svolgono almeno 10 lapidazioni ufficiali assieme ad altre non pubblicizzate. Quando pensate a Sakineh ricordatevi che le carceri sono stracolme, che la gente scompare nel nulla, che in quelle galere si muore dimenticati ed ignorati».
Di Sakineh in Iran non parla neppure la cosiddetta opposizione «verde».
«Grazie a internet e tv satellitari gli iraniani, sono informatissimi.

I miei amici giornalisti rimasti lì parlano ogni giorno con i figli di Sakineh, ma non possono pubblicare una riga perché vivono sotto la spada di Damocle della repressione. Finché sai e taci non succede nulla. Non appena agisci la spada cade e t’ annienta».

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