La guerra di difesa dalla pioggia di katiusha degli hezbollah ha dimostrato ancora una volta la grande forza di Israele. Non quella militare dello Tsahal, invincibile fino a quando ha dovuto fronteggiare i terroristi ignominiosamente mescolati ai civili. Ma la forza ben più significativa della democrazia in un Paese che, in una situazione drammatica, ha salvaguardato le istituzioni libere e la dialettica delle posizioni conflittuali, ed ha tutelato il pluralismo democratico in una difficile società aperta e multietnica.
In quale altro Paese assediato sarebbero state possibili le manifestazioni in piazza dei riservisti e degli oppositori politici, sarebbe stata permessa l'aperta critica al premier per la conduzione della guerra e, addirittura, la contestazione del presidente della Repubblica e di un ministro per scandaletti sessuali minori?
Tutto ciò fa di Israele una parte integrante del migliore Occidente. È bene ricordarlo nel momento in cui in Italia il ministro degli Esteri, definito filo-arabo, misura la sproporzione della reazione difensiva israeliana, ed accade che nella consulta islamica sia legittimata l'Ucoii di cui non era difficile prevedere l'atteggiamento antisemita per le sue note ascendenze dai fratelli musulmani. O, ancora, è all'opera un governo che poco si preoccupa delle regole d'ingaggio per quel che riguarda la risposta al fuoco degli hezbollah, dato che, secondo il presidente Cossiga, è ispirato in maggioranza dall'anti-israelismo che maschera il più profondo antisionismo.
Lo Stato di Israele con i 7 milioni di abitanti anche arabi è sotto scacco permanente da parte di un miliardo di islamici e di quasi tutti gli Stati che lo circondano. Il folle presidente Ahmadinejad, che ripete di avere come obiettivo la sua cancellazione, è in procinto di costruire la Bomba e i relativi missili per lanciarla. L'asse terroristico Iran-Siria-Hezbollah-Hamas-Al Qaida mantiene una minaccia permanente, tutt'altro che teorica. E tutte le volte che gli israeliani tentano un compromesso pacifico (con il ritiro unilaterale dal Libano, con Arafat a Camp David, con Sharon e Abu Mazen) vengono puntualmente respinti al punto di partenza dalle contromosse dei fondamentalisti. Il quadro non sarebbe completo se non si ricordasse il completo isolamento della piccola nazione, appoggiata solo dagli Stati Uniti ma guardata con indifferenza quando non con ostilità dall'Europa.
È perciò che in queste ore l'accettazione della risoluzione Onu 1701 è un'altra prova di buona volontà israeliana, dopo che la risoluzione 1559 è rimasta carta straccia per il disarmo degli hezbollah e la missione Unifil non si è dimostrata neppure capace di impedire la costruzione di un'enorme fortificazione terrorista a due passi dal suo quartiere generale. Malgrado ciò Israele sta dando credito al tentativo messo in atto dagli europei, quindi anche dagli italiani.
Ma a casa nostra, nonostante la retorica della portata storica sui nostri soldati sempre bravissimi, non c'è da stare allegri. L'atmosfera dominante nel nuovo governo è assai ambigua sul punto cruciale: la difesa a qualsiasi costo dell'esistenza di Israele. Ed è proprio ciò che vanno ripetendo due coraggiosi e fantasiosi politici di rango. Francesco Cossiga che da «democratico, cristiano e occidentale» è andato a testimoniare il suo impegno in quella martoriata terra.
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