Attilio Melo, quando il ritratto mette a nudo l'anima

«Bisogna cogliere la personalità, il ritrattista non è un imbalsamatore». Con queste parole del pittore Attilio Melo, scomparso all'età di 94 anni l'estate scorsa, lasciando dietro di sè un mondo di immagini che catturano l'anima ancora oggi. Ne è la riprova la personale che la galleria Ponte Rosso di Via Brera 2 gli dedica in questi giorni unendo paesaggi a ritratti d'autore.

Melo abitava a Milano in Piazza San Marco e aveva lo studio vicino a Corso Indipendenza, in via Goldoni per l'esattezza: lì si potevano vedere i personaggi da lui ritratti, dalla Loren a Gassman, da Giorgio Strehler a Valentina Cortese, da Alcide De Gasperi a Giovanni Gronchi. Nelle sue tele furono immortalati anche il Cardinale Carlo Maria Martini (il dipinto ora è a Gerusalemme) e Rudolf Nureyev, il direttore d'orchestra Arturo Toscanini, Ingrid Berman e Renzo Arbore. Alcuni furono esposti anche al Teatro alla Scala, specie quelli che rappresentavano il teatro, ma il primo successo Melo lo ebbe quando ritrasse Davide Campari, il signore del «Bitter», come lui stesso amava definire, da allora è stato un continuo arricchirsi di personaggi e di illustri famiglie lombarde.

Ma non faceva solo ritratti il berbero e benefico Melo, ma anche suggestivi paesaggi da quelli milanesi dove spesso compariva la neve a quelli veneziani, le Zattere, la laguna.

Era nato a nel 1917 da genitori per l'appunto veneziani che si trasferirono ancora quando il piccolo Attilio era un bambino a Milano e tornando l'estate nel Veneto. Per lui avevano pensato a una carriera in ospedale, lo volevano medico, ma lui preferiva l'arte del pennello e della tavolozza. Quando arrivò l'età consentita si iscrisse subito all'Accademia di Brera dove imparò a immortalare gente comune, strade, palazzi, giardini, tetti.

Un amore per la città e per il paesaggio che lo portò anche Oltreoceano, a New York dove la neve di Central Park lo attrasse come un ragazzino nella medesima maniera in cui riproduceva scene cittadine milanesi come via Festa del Perdono durante una grande nevicata. Milano, Venezia, Roma e Londra furono le città da lui preferite: nel suo studio di via Goldoni passò tutta la sua vita fatta eccezione naturalmente per i periodi in cui viaggiava. Sua figlia Paola fu la prima tre mesi prima di morire che capì da come teneva il pennello che non ce l'avrebbe più fatta. La lunga malattia lo aveva consumato ma adorava lo stesso stare tra l'odore di olio di lino, trementina e i suoi colori.

Figlio d'arte, il padre dipingeva affreschi, il nonno era scenografo per la Fenice di Venezia e quell'amore per l'arte gli entrò nel sangue. Ma di che cosa era fatta la sua pittura? Rossana Bossaglia nella biografia dell'artista definisce la sua tecnica tra l'impalpabile e il materico e per quanto riguarda la galleria di personaggi illustri che ritrasse pare avesse il dono di individuare subito il carattere del soggetto che posava e ne metteva in evidenza i tratti, insomma aveva il dono di rubare l'anima ai suoi ospiti impettiti o presi nella parte che recitavano nella vita professionale.

Già nel 2001 i Consonni, titolari della Ponte Rosso gli dedicarono una personale, opere realizzate da Melo dal 1960.

Oggi nello stesso luogo, che ha ospitato Melo anche in mostre collettive, possiamo dire che il tempo sembra essersi fermato e davanti a quei dipinti fatti di un sapore particolare, delicato, a volte persino sfumato (come quando si trattava delle sue Venezie), si capisce quanto fosse stato importante per Melo confrontarsi con i luoghi, la luce, le dimensioni e i tagli da sviluppare sulla tela. Le opere di Melo saranno esposte ancora per una quindicina di giorni.

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