Era «malato» ed «emarginato», Adam Kabobo. Anche per questo, al ghanese che nel maggio del 2013 uccise tre passanti a colpi di piccone è stata riconociuta la seminfermità mentale e per quella strage è stato condannato a vent'anni di reclusione. Malato per quelle «voci» che gli dicevano di colpire con violenza tre perfetti sconociuti la cui unica colpa fu quella di trovarsi al posto sbaglianto nel momento sbagliato, e vittima di una «condizione di stress» provocata da una «lotta per la sopravvivenza ha inciso sulla patologia». È questo il quadro in base al quale il giudice per le udienze preliminari Manuela Scudieri ha praticato lo sconto di pena all'imputato, oltre a quello previsto dal rito abbreviato. Nelle motivazioni della sentenza da poco depositate, infatti, il gup scrive che «la condizione di emarginazione sociale e culturale dell'imputato è già stata (...) valutata, quale concausa della patologia mentale riscontrata, nel riconoscimento della seminfermità mentale ed è già stata quindi oggetto di adeguata considerazione ai fini della quantificazione della pena».
Quanto al grado di follia di Kabobo, il giudice riprende i pareri degli esperti che lo hanno visitato in carcere. E dunque «non può dirsi che la malattia abbia agito al suo posto», nonostante «l'efferratezza dei gesti delittuosi» e l'assenza «di un movente immediatamente riconoscibile potrebbero indurre ad attribuire le condotte» del ghanese «secondo i canoni del comune sentire alla follia del suo autore, come gesti incomprensibili che possono appartenere solo ad una mente totalmente offuscata dalla pazzia». Ma per il magistrato, non è così. Kabobo non ha ucciso per «automatismo», come «travolto dalla malattia». I medici danno conto «della presenza della malattia mentale da cui è affetto l'imputato», un disturbo di natura psicotica, «e di quanto la stessa abbia inciso nella sua comprensione degli eventi e nella determinazione della sua volontà offensiva». ma la conclusione degli esperti fatta propria dal gup è che Kabobo «non ha commesso gli omicidi in una condizione di totale assenza di coscienza, di automatismo travolto dalla malattia, così che non può dirsi che la malattia abbia agito al suo posto».
Ma allora, se un briciolo di coscienza era presente nell'uomo che la mattina dell'11 maggio 2013 seminò il terrore nel quartiere di Niguarda, cosa lo spinse a una tale violenza? Kabobo, spiega ancora il gup, «non si è limitato a giustificare la sua condotta riferendo la presenza delle voci, ma ha espresso chiaramente il suo stato di rabbia verso un mondo che non lo accoglieva, non gli prestava aiuto, non soddisfaceva le sue primarie esigenze di vita». Una rabbia cieca, ma attravewrsata da momenti di «lucidità». Era in sè, Kabobo, quando cambiò la spranga con il piccone perchè la prima «non garantiva il sopravvento sulle vittime e ciò in quanto le aggressioni» precedenti «non erano andate a buon fine».
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