«La mia Festa esagerata fa ridere e... piangere»

L'attore presenta la sua ultima commedia: «Racconto le miserie della borghesia d'oggi»

Ferruccio Gattuso

Non basta far ridere. Vincenzo Salemme la commedia la pratica, la respira, la scrive da 25 anni, e sa bene che, quando la porti in teatro, dentro di essa deve esserci la giusta sostanza. E la sostanza non passa solo dalle risate. Lo spiega al pubblico («il mio dittatore, ma è un dittatore che mi piace assai») raccontando Una festa esagerata...!, la sua ultima commedia attesa al Teatro Manzoni da questa sera all'1 gennaio, nel cast lo stesso Salemme con Teresa Del Vecchio e altri sette attori.

Vincenzo Salemme, cosa c'è dunque dietro le risate di questa festa esagerata?

«Quello che deve esserci in ogni testo teatrale, che è una cosa ben diversa dal cabaret. In una commedia si devono inserire gioie ma anche paure: i testi funzionano solo se i personaggi hanno sfumature emotive che li rendono reali. La commedia ha profondità, ed è esattamente questo che la rende altro dal cabaret, nel quale funziona solo la battuta, non si fa filosofia. Se invece in una commedia ci sono solo battute, tanto vale far calare il sipario dopo cinque minuti».

Di cosa parla la storia?

«Io sono un imprenditore edile, vivo a Napoli, ho una moglie piccolo borghese determinata a farsi una posizione, una specie di Madame Bovary: i due hanno organizzato una bella festa in terrazza, una di quelle con la gente giusta. C'è anche un assessore ai Lavori Pubblici che può essere utile alla mia carriera. Il problema è che al piano di sotto ci muore un vicino, e come si fa con il portone listato a lutto? Ma sto qui non poteva morire domani? Da qui l'ideazione di uno stratagemma per non fare saltare la festa».

Una situazione da cui nascerà comicità ma anche, ci sembra di capire, qualche inquietudine...

«Dietro quest'ansia di non rovinare la festa c'è tutto di questa nostra società che non riesce più a rispettare il dolore. Ciò che ci spaventa di più oggi è considerare la morte, ma ancora di più la malattia che la precede: perché il dolore è impegnativo».

Una festa esagerata...! approderà anche al cinema, in forma di film e dunque con tutt'altra scrittura, dal prossimo marzo: a lei piace così tanto scrivere, con tutto quello che fa?

«Cominciamo col dire che io costruisco meccanismi e dialoghi. Scrivo, certo, ma non faccio letteratura: tanto è vero che per creare non mi serve la solitudine e il silenzio. Anche nel caos mi ci trovo benissimo. Io non scrivo di notte, ma di giorno, quando c'è la luce. Detesto il buio. Se fossi un mese, sarei giugno, con le sue giornate lunghe».

Oltre ai colpi di scena, ci sono alcune dediche ai fratelli De Filippo, alla cui scuola lei è cresciuto. Si sente un erede?

«Mi sono formato

alla scuola di Eduardo, ma non esageriamo. Lui è il Tolstoj del nostro teatro, io sono un figlio del mio tempo, non ho la potenza dei dialoghi che aveva lui. Piuttosto, avvicinatemi a uno Scarpetta o ai Monty Python...».

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