Pochissimi sanno che il debutto di Franco Parenti avvenne nel 1940, al teatro Odeon di Milano, in occasione della messinscena di Marionette, che passione, di Rosso di San Secondo, con una delle più prestigiose compagnie della prima metà del Novecento, la Merlini- Cialente. Parenti interpretava il personaggio della Guardia del telefono.
Un giorno Franco mi raccontò di trovarsi a piazza Duomo, con Elsa Merlini, alcune ore prima del debutto, la quale lo invitò a prenderla sotto il braccio, dicendogli: «Attraverserai insieme a me la Galleria e tutti si chiederanno chi tu fossi, diventerai subito famoso», quindi aggiunse «Rosso di San Secondo mi portò fortuna. Avevo soltanto 19 anni». Ricordo questo episodio, avendo appena letto un libro di Calogero Rotondo: Rosso di San Secondo, narratore e drammaturgo(1887-1956) che, per la completezza della ricerca, per la scoperta di alcuni inediti, per la molteplicità degli apparati, mi offre la possibilità di ritornare a parlare di un autore scomodo, irruento, passionale, deciso a rinnovare la scena del primo Novecento. La sua corposa produzione teatrale si protrasse fino al 1953, ovvero fino alla composizione di Il ratto di Proserpina andata in scena durante le Orestiade di Gibellina (1986) con la regia di Guido De Monticelli, che riportò all'attenzione della numerosissima critica, la figura artistica di Rosso, di cui, due anni dopo, la Compagnia Tieri-Lojodice, con la regia di Giancarlo Sepe, ripropose, con teatri sempre esauriti, Marionette, che passione.
Questo successo avvalora la mia tesi, secondo la quale, uno sperimentatore come Rosso, avesse bisogno di Compagnie primarie, di Teatri Stabili, di Festival internazionali per essere rappresentato, ma soprattutto di quella continuità necessaria perché un folto pubblico lo conoscesse. Dei suoi compagni di strada - Chiarelli, Antonelli, Cavacchioli, Bontempelli - solo Pirandello fu l'autore che riscosse successi a livello internazionale. Rosso dovette accontentarsi di quelli europei benché, dopo gli anni Quaranta, avesse subito un periodo di silenzio, interrotto da Luigi Squarzina che mise in scena, al Festival internazionale di Venezia, La scala (1955), con Gianni Santuccio e Lilla Brignone. Per chi, come me, ha scritto tantissimo su Rosso, cercando persino di analizzarne la storia delle messinscene, grazie allo interesse dell'Editore Sciascia, e del committente Pietro Carriglio, per il Teatro Biondo Stabile di Palermo, accostarmi al lavoro di Calogero Rotondo è stato molto utile perché, grazie ad alcune lettere inedite inviate da Rosso alla poetessa Orazia Prini, ho potuto capire meglio l'ostracismo nei confronti dell'autore nisseno, accusato di essere fascista, come, del resto, lo fu Pirandello; benché nelle loro opere non vi fosse nulla dell'ideologia fascista, essendo interessati a sondare la crisi dell'individuo nel momento in cui cercava di liberarsi dai lacci della società borghese.
Come ebbe a scrivere Adriano Tilgher, già nel 1919: «Il vero superatore del teatro borghese è, a tutt'oggi, in Italia, Rosso di San Secondo». Allora, perché nel dopoguerra, fu così snobbato? Forse perché su di lui pesava l'accusa di fascismo? Dalle lettere citate, si evince che Rosso di San Secondo odiava autori come Forzano e Cantini, si scagliava contro la «cricca D'Amico», quella di impostazione cattolica, non risparmiava il regime, accusandolo di «immondizia governativa».
Fu anche un oppositore di Max Reinardt, il cui teatro di regia era, a suo avviso, troppo tecnologico e troppo meccanico. Poi c'erano altri motivi meno convincenti, per esempio quello di Giorgio Strehler, il quale diceva apertamente di voler mettere in scena Rosso, ma che non lo faceva per non essere ossessionato dalle richieste della moglie. Lo stesso Luigi Squarzina scelse «La scala», perché prodotta dal Festival di Venezia e non certo, dallo Stabile che dirigeva. Non rimanevano che gli Stabili siciliani. Già nel 1960 Turi Ferro e Ida Carrara, con la regia di De Martino, avevano messo in scena «La bella addormentata», solo che bisognerà attendere il decennio 1980-1990 per assistere a una serie di messinscene degne di nota, come una versione sperimentale della «Bella», con la regia di Giancarlo Sbragia, protagonista Raffaella Azim( 1980), un Delirio dell'oste Bassà con Vittorio Franceschi a Ginevra,(1983) che fece scrivere a Bonino, sulla Stampa, «Rosso è il terzo grande drammaturgo del Novecento dopo Pirandello e Eduardo».
Sono ancora degni di nota L'ospite desiderato (1990) e il trittico voluto da Pietro Carriglio per il teatro Biondo di Palermo, con una sua regia di Una cosa di carne, a cui seguirono: Il delirio dell'oste Bassà, regia Roberto Guicciardini, Lo spirito della morte, regia Giuseppe Dipasquale. Poi ancora il silenzio.
L'ultima rappresentazione di Rosso la dobbiamo ancora a Pietro Carriglio che nel 2007 mise in scena Marionette, che passione, in un'ambientazione alquanto metafisica, forse per evidenziare l'universalità del suo teatro.
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