Storie di malattia e morte Lavia rispolvera Pirandello

A 150 anni dalla nascita del Nobel di Girgenti arriva al Parenti «L'uomo dal fiore in bocca»

Antonio Bozzo

Leggereste a un bambino, invece di Pinocchio, l'atto unico di Pirandello L'uomo dal fiore in bocca. Il fiore è un cancro dal «nome dolcissimo, più dolce d'una caramella. Epitelioma si chiama». A Gabriele Lavia, attore e regista tra i più importanti, quel testo veniva letto, magica cantilena, dalla nonna Carmela. «Sono sicuro che dall'aldilà nonna mi mette ogni sera una protettiva mano sulla spalla. A lei, siciliana di origini spagnole, devo la passione per il teatro. Mi leggeva Pirandello da libri veri, cuciti, con odore di libro, non come quelli di oggi che si sfaldano appena li apri. Il lieve accento siciliano che uso è un omaggio a lei».

Lavia da anni voleva mettere in scena L'uomo dal fiore in bocca, ora al Franco Parenti da mercoledì al 19. Lo dirige e interpreta, inserendo parti di altre novelle pirandelliane che affrontano gli stessi temi. «La morte e la donna. Pirandello li tratta ovunque, sono la sua ossessione. Il protagonista, sorpreso in una stazione ferroviaria, dialoga con un uomo qualunque, e viene disturbato da una donna che passa da lontano, figura fantasmatica e minacciosa. La donna è la sua malattia mortale, e lui riflette mentre la morte che gli ha messo il fiore in bocca aspetta di raccoglierlo, vittima come tutti gli esseri che ha falciato nel suo instancabile lavoro», dice Lavia.

«Quest'anno ricorrono i 150 dalla nascita dello scrittore di Girgenti. Non è il primo Pirandello che faccio, ne ho realizzati quattro. Resto convinto della sua grandezza assoluta. È da mettere vicino a Eschilo, Shakespeare, Ibsen, Cechov, Molière, Strindberg. Un massimo, non del Novecento, ma di tutti i tempi».

Sempre capito in Italia? «No, spesso travisato. Ricordo Giorgio Bassani che lo detestava. Lo vedeva messo in scena in una lingua salottiera post-liberty, trasformazione del dialetto borghese. I suoi drammi apparivano estenuati, falsi. Invece Pirandello è carnale, autentico. Non so se vale per tutti coloro che lo interpretano, per me è così». Che cosa pensa, Lavia, del teatro italiano? «Da noi non è come in Inghilterra, Giappone, Svezia, Olanda e altri paesi. Da noi il teatro è sopportato. Non vedo mai le persone che contano. Grandi intellettuali, politici di prim'ordine, industriali, banchieri. Altri sono i luoghi frequentati. Eppure facciamo teatro di qualità. Ma le regole di oggi e la scarsità di finanziamenti hanno trasformato i troppi attori in un manipolo di disoccupati. A parte una ventina di nomi conosciuti, il resto è fatto di precari, a volte anche di poco talento». Ed evoca gli ultimi versi della leopardiana A Silvia come spaventoso futuro del teatro («...

tu, misera, cadesti: e con la mano/ la fredda morte ed una tomba ignuda/ mostravi di lontano»). Per lui il palcoscenico è una felice condanna. «È la mia Marilyn. Vorrei essere giovane per rifare tutto quello che ho fatto».

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