Ministri tra la gente del Nord E per Bossi è un’ovazione

nostro inviato a Novara

È questione di pelle, di pancia, di fiuto. Perché da queste parti, in questo piatto angolo del Nord dove la gente è venuta su a riso e vino Ghemme, quando arrivano le cravatte verdi la musica degli applausi diventa un’altra cosa. Più sonora e più intensa. Forse più sentita, senz’altro più convinta. Musica che se proprio non divide, quantomeno distingue il popolo del centrodestra. È successo anche ieri, nella sobria bomboniera del Teatro Coccia di Novara, in uno degli appuntamenti battezzati «Governincontra» e voluti da Gianfranco Rotondi, ministro all’Attuazione del programma, per portare fino in provincia la voce e le orecchie del governo. Perché bisogna raccontare quanto fatto e il tanto che resta da fare, ma soprattutto perché bisogna ascoltare.
Per farlo, per rassicurare e per essere rassicurato, il governo è salito in forze in questo angolo di profondo Nord oggi meno prospero e più in difficoltà rispetto a ieri, dove in cassa integrazione è un lavoratore su cinque e dove la parola «tagli» appanna anche un marchio glorioso come quello della De Agostini. Anche per questo il governo è salito fin qui con una formazione di tutto peso. Ovvero sei ministri, da Umberto Bossi (Riforme e federalismo) ad Angelino Alfano (Giustizia), da Mariastella Gelmini (Istruzione) a Luca Zaia (Agricoltura), da Roberto Maroni (Interni) al già citato Rotondi.
Gli applausi arrivano per tutti, per il dc Rotondi quando spiega la ratio dell’iniziativa come per l’azzurra Gelmini che suscita un’approvazione razionale quando premette che «la scuola non può essere solo una questione contabile». E che strappa dai cuori un’ovazione quando spiega cosa intende con quel «qualcosa» che ora c’è, oltre ai numeri: il crocifisso che resta appeso nelle aule o il ripristino del dimenticato rispetto per gli insegnanti. E applausi ne scatena anche il «tecnico» Alfano, promettendo una giustizia amministrata «da giudici terzi e imparziali».
Ma quando a prendere la parola sono le cravatte verdi, i giovani rampanti della Lega diventati sì gente di governo, ma pur sempre adoranti difensori del loro Senatùr, be’ soltanto allora il popolo del Nord si trasforma in mare. Si gonfia, si agita e finalmente esplode in un battimani che diventa tsunami e che è ben più di un’approvazione. È adesione totale, è atto liberatorio, è soprattutto identificazione piena.
Si scaldano così le dita quando Zaia, agitando un unico foglio di appunti per anticipare la sua brevità - «quando ricevo, lo faccio con la clessidra davanti» - ricorda i sequestri di vino, pomodoro e pesce taroccati, quel falso made in Italy che fa male alle tasche pubbliche e ancor più alle pance private. E si arrossano i polpastrelli quando in una terra dove il riso ha la sacralità del pane, il ministro ne ricorda il salvataggio attuato dal governo. E si arroventano i palmi delle mani quando premettendo un poco convinto «mi spiace per loro», lui invita la comunità cinese «a tenersi in casa le loro schifezze», come quelle tonnellate di latte alla melamina scoperte in un sottotetto a Napoli.
Eppure è l’Umberto che tutti attendono, il vecchio leone acciaccato, ma sempre indiscusso capobranco, per risentirne la roca rivendicazione d’orgoglio.

«Soltanto grazie a noi, a gente come Maroni, l’ho allevato io e si vede - elenca lui sull’onda delle ovazioni - che abbiamo garantito gli interessi della nostra gente; che arriveremo al federalismo fiscale che non punirà il Sud, ma soltanto i ladri; che non ci sarà più una siringa che costi cento a Novara e mille altrove; che il centrodestra governerà perché è la Lega a portare i voti... ». E via così, rivendicando. E chi lo ferma questo?

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