Michael Walzer è da poco tornato a New York da Princeton, dove è Professore emerito all'Institute of Advanced Study e dove ha trascorso anche il periodo della pandemia, come racconta nel nuovo saggio Che cosa significa essere liberale (Raffaello Cortina, pagg. 182, euro 19), scritto proprio mentre era chiuso in casa a causa del Covid. Nato nel 1935 a New York, direttore per trent'anni della rivista Dissent, si è sempre occupato di filosofia politica e morale da una prospettiva liberale ed è celebre per la teoria della «guerra giusta». Ora, come dice durante una chiacchierata via zoom, il suo saggio riflette su «che cosa significa essere un qualcosa liberale: un democratico liberale, un socialista liberale, un nazionalista liberale, una femminista liberale, un ebreo liberale...».
Professor Walzer, perché «liberale» è diventato un aggettivo, come sostiene nel suo libro?
«Il liberalismo c'è ancora, ci sono persone che si identificano in esso. In Europa è una ideologia più vicina alla destra, ovvero quello che noi americani chiamiamo libertarismo: il laissez-faire, l'orientamento al mercato, l'individualismo radicale. In America è un liberalismo in stile new deal, socialdemocratico. In ogni caso non è una ideologia singola e coerente, perciò credo sia più utile pensarlo come un aggettivo, che qualifica altre ideologie».
Per esempio?
«In democrazia, il governo è determinato dalla maggioranza popolare. Ma i democratici liberali ci dicono che la maggioranza non può fare tutto ciò che vuole: esistono dei limiti, definiti dai diritti umani e dalle libertà».
A quali valori si riferisce l'aggettivo «liberale»?
«Apertura mentale, scetticismo, ironia, non fanatismo, desiderio di andare incontro all'ambiguità, riconoscimento delle pluralità e delle diversità. Tutto questo, appunto, qualifica ideologie come la democrazia, il socialismo e il nazionalismo».
Quella ad aggettivo non è una riduzione?
«Credo di no. È importante, perché le sue risposte sono importanti, tanto da qualificare ideologie diverse».
In America però il neoliberalismo esiste: spiega che è stato declinato sia dai Tea Party, sia nelle politiche di Clinton e Obama.
«In America, il neoliberismo è una ideologia economica orientata al mercato che è stata distruttiva e ha provocato l'ascesa del trumpismo».
Anche Clinton e Obama l'hanno favorita?
«Sì, anche loro: Clinton e Obama hanno abbandonato la classe lavoratrice, sono fuggiti... Hanno vinto le elezioni grazie alla classe media altamente istruita e alle minoranze; e questa è stata una strategia elettorale vincente, che ha avuto successo per un po', ma che ha alienato la vecchia base dal Partito democratico. E il trumpismo ha conquistato questa base».
Qual è la differenza fra democrazia liberale e illiberale?
«In quella illiberale, la maggioranza è incarnata da dei líderes máximos, che possono fare quello che vogliono. La democrazia implica che ci siano dei contenimenti alla maggioranza, dei limiti ai poteri del governo, dei pesi e contrappesi, la separazione dei poteri. E poi il riconoscimento dei diritti dell'opposizione, della libertà di espressione e di stampa, e l'idea che le maggioranze siano tutte temporanee: questa volta hai vinto ma, magari, alla prossima perderai... Questi sono i vari strumenti della democrazia liberale».
Lei sostiene che la sensibilità liberale sia universale...
«Lo sappiamo perché i valori liberali sono sotto attacco dappertutto. L'atteggiamento è universale, poi i nomi che prende sono particolari: per esempio posso parlare di ebreo liberale, come di cristiano liberale, musulmano liberale o buddista liberale, perché se ne vedono anche versioni illiberali».
Se questi valori sono sotto attacco, sono anche da proteggere?
«Dovremmo vivere secondo questi valori, e discutere su che cosa significhino davvero, in un certo luogo e in un certo momento».
Lei però è famoso per la teoria della guerra giusta.
«Se non ci fossero altri mezzi disponibili, anche se rifletterei a lungo prima di usare la forza militare, sì. Valori come quello dell'autodeterminazione dei popoli e dell'integrità del territorio nazionale sono difesi dall'Ucraina in questo momento, e sono dei valori base, liberali ma anche nazionali e democratici: valori che devono essere affermati in casa propria, e anche militarmente, se si viene attaccati dall'esterno. Non sono frettoloso a dire di sì a una guerra, ma credo che la loro sia giustificata».
Nel libro parla anche del movimento woke. Dal punto di vista liberale come lo considera?
«Negli Stati Uniti, woke è un nome non del tutto chiaro: generalmente significa molto consapevole dell'oppressione, molto sensibile all'insulto e molto desideroso di difendere le minoranze. E queste possono essere istanze valide, fino a che non prendono una forma molto illiberale, che si traduce nel reprimere chiunque non sia woke, o non lo sia abbastanza. E non provo nessuna comprensione per questo tentativo di negare il diritto di qualcuno di parlare, solo perché pensi che dirà qualcosa con cui non sei d'accordo... Nel mondo molti vogliono ascoltare soltanto le persone con cui già sanno che concorderanno: non è un atteggiamento liberale, è una imposizione».
È una forma di assolutismo?
«Sì, lo è. È il rifiuto di ammettere la possibilità che esistano altre visioni e posizioni politiche».
Nel libro scrive che gli aggettivi «assoluto e «liberale» non si sposano bene.
«Credo che non vadano d'accordo. Se sei a favore della libertà di espressione, e ne ammetti dei limiti, per esempio nei casi di incitamento alla violenza e all'odio, credo che quello che dovremmo fare sia metterci a discutere su quali siano questi limiti, di volta in volta; e forse scopriremo che non sono gli stessi, in luoghi diversi».
E la cancel culture, che pretende di riscrivere la storia?
«È una nuova forma di censura, che arriva sia da destra, sia da sinistra. Nelle università americane, soprattutto da sinistra: gli studenti si rifiutano di ascoltare quelli con cui non sono d'accordo; in politica, soprattutto da destra: ci sono legislazioni statali che proibiscono i libri e i corsi scolastici che danno un resoconto reale della storia americana. Sono molto, molto contrario a entrambe le versioni».
Chi sono i nazionalisti liberali?
«Questo è vostro, la versione italiana: Giuseppe Mazzini è stato il primo di essi, e lo ha provato, sostenendo l'autodeterminazione degli altri popoli, oltre al suo. Questo lo rende un nazionalista liberale. In Cina, per esempio, lo sarebbe un cinese che affermasse i diritti dei tibetani. Il principio è: è la nazione che viene dopo a costituire il test per le nazioni liberali. Il nazionalismo illiberale è, invece, quello di chi respinge i diritti altrui, ad accezione di quelli della propria nazione».
Dice di avere scritto questo libro per «speranza». Quale?
«Spero nel successo dell'aggettivo liberale nei diversi Paesi; spero in una politica decente, come si intitola il libro in originale».
Che cos'è lo scetticismo liberale?
«È un senso di incertezza rispetto alla vita politica: ci sono persone che pretendono di conoscere il corso della storia e che sono sicure di essere in marcia verso una fine che coincide con il destino... Beh, forse non è così: forse quello che cerchiamo di realizzare sarà qualcosa per la quale combatteremo per sempre, forse è una visione che bisogna sempre inseguire e che non si è mai capaci di attualizzare del tutto».
Sostiene che ai ragazzi vada insegnato l'«empirismo critico». Che cos'è?
«Nel mio Paese, e forse anche nel vostro, un gran numero di persone crede a cose che è chiaramente impossibile che possano essere vere, alle teorie complottiste e alle bugie dei demagoghi; perciò è importante che nelle scuole si insegni l'empirismo critico, ovvero imparare a capire quello che è evidente, che cosa significa e che cosa è una argomentazione coerente, e a porre domande critiche e a cercare le prove».
Lei dice che ci si concentra più su altre cose come l'identità, il genere sessuale, la diversità.
«Sono cose importanti, per esempio la storia americana va insegnata con onestà, per quanto riguarda la schiavitù e la discriminazione. Ma credo che si possa anche esagerare l'importanza della diversità e far concentrare troppo i ragazzi su ciò che hanno di diverso dagli altri, mentre bisognerebbe concentrarsi su ciò che hanno in comune».
Che cosa?
«Sono i futuri cittadini della società democratica: tutti hanno questa identità in comune, qualsiasi siano le loro diversità: e l'enfasi, secondo me, deve essere su questa cittadinanza comune».
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