Dopo una carriera da caratterista, in televisione come al cinema, per Pedro Pascal, è arrivato il momento della celebrità e dei ruoli da protagonista. «È stata fortuna dice l'attore -. Mi si è aperta una porta e io ci sono entrato dentro». È troppo modesto per ammetterlo ma anche il talento ha giocato un ruolo importante nel farlo arrivare a serie come Il Trono di Spade, Homeland, The Mentalist, Narcos e ora a The Last of Us, forse il più importante adattamento per la tv di un famoso videogioco (su Sky), e The Mandalorian, la cui terza stagione ha appena debuttato di Disney+. Ogni mercoledì una puntata viene rilasciata sulla piattaforma.
Prima di farla, la tv, Pedro Pascal l'ha guardata avidamente. Anzi, ci è cresciuto con la televisione americana, che per la sua famiglia - fuggita dal Cile per sfuggire al regime di Pinochet - ha rappresentato un importante veicolo per imparare la lingua della terra che l'aveva accolta. «In fondo sapevo che avrei voluto fare questo mestiere già da allora», ammette. Del ruolo che riveste in The Mandalorian è entusiasta. Da freddo cacciatore di taglie nel corso delle due precedenti stagioni, il suo personaggio si è trasformato nell'adottivo padre affettuoso di un infante Yoda dal potenziale eccezionale. Tutto questo mentre la Nuova Repubblica lotta per allontanare la galassia dal suo passato oscuro.
In questa terza stagione il Mandaloriano incontra vecchi alleati e si fa nuovi nemici, ma lui e Grogu non si separano più, continuano il loro viaggio insieme.
«Vero. Il rapporto fra Din e Grogu continua a crescere, proprio come succede fra un genitore e un bambino. Nel corso degli anni, in una relazione genitoriale, i ruoli fra chi protegge e chi viene protetto continuano a cambiare, ed è questo quello che succede anche fra il Mandaloriano e il giovanissimo Yoda. Ci sono uno per l'altro».
Quanto c'è di personale nella sua interpretazione di Din Djarin?
«Succede sempre che ci sia qualcosa di mio nel personaggio che interpreto, è necessario per renderlo credibile, anche quando si nasconde sempre dietro una maschera, un elmetto integrale, come succede in questo caso».
Difficile recitare sotto quell'elmetto?
«La cosa più difficile riguarda il fatto che dentro quel costume non puoi vedere dove stai andando e con chi stai parlando, ma non sono sempre io sotto quella maschera. Ci sono alcune scene molto fisiche che sono interpretate da stuntmen, è un gioco di squadra, ma ho trovato divertente recitare con un linguaggio del corpo così minimalista».
Per questa serie è stata utilizzata una nuova tecnologia, chiamata The Volume
«Sul set ci sono rettangoli digitali con le immagini adatte a calare l'attore nel mondo in cui sta recitando. Devo dire che aiuta molto l'immaginazione sul set».
D'altronde lo showrunner di The Mandalorian è Jon Favreau, grande sperimentatore, che ha fatto la storia dei cinema fantastico e comic.
«A scuola finita vidi un film, Swingers, che cambiò il mio modo di approcciarmi il cinema americano. La sceneggiatura era di Jon Favreau, che è il protagonista. Era la storia di un aspirante attore, forse fu allora che decisi di intraprendere questa carriera».
Il suo primo ricordo legato a Guerre Stellari?
«Era L'Impero colpisce ancora, e ricordo che lo vidi al cinema. Io sono del 1975, forse ero troppo piccolo per il debutto originale, che fu nel 1980, quindi forse si trattava di un ritorno del film al cinema. Invece ricordo chiaramente come, tre anni dopo, feci di tutto per andare a vedere in sala, al suo debutto, Il ritorno dello Yedi.
Feci vari tentativi, non riuscivo a entrare in sala perché era sempre tutto esaurito, guardavo il poster con aria malinconica e me ne tornavo a casa deluso. Ricordo ancora chiaramente la felicità che provai quando finalmente riuscii a entrare» a vederlo e gustarlo dall'inizio alla fine.
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