«Del Mondiale sono rimaste solo le 4 stelle»

nostro inviato a Bari

La notte dopo il primo esame non è di quelle che si dimenticano tanto facilmente: «Non è stata simpatica, non ho dormito e non sono riuscito neanche a pensare alla classifica del girone, avevo la testa spaccata»: sembra il racconto di un sopravvissuto, è «solo» quello di Roberto Donadoni che il giorno dopo la vittoria sulla Scozia torna nella pancia del San Nicola e rivede la serata che, se non ha risolto i problemi azzurri, ha quantomeno permesso al ct e ai suoi soldati di continuare la marcia verso il confine austro-svizzero.
L’hanno vista in 11 milioni Italia-Scozia, lo share ha sfiorato il 40%: numeri da partita che conta. La grande attesa, scandita da dieci giorni di tormenti, ha pagato. Nessuna rivincita, però. Il ct («sassolini da togliermi? mi sono messo delle scarpe molto comode») dopo essere stato difeso dai suoi nei fatti e a parole ricambia il «favore»: «Questa nazionale ha vinto il mondiale, ma non è sazia. Siamo partiti male per difetti di condizione, ricordare solo i risultati è ingiusto per i ragazzi».
Ballano quei due punti con la Lituania, ma il ct ora può finalmente guardare avanti. Bari è stata una liberazione: il gruppo è tornato in ordine sparso, ma con un comune senso dell’onore rafforzato. «La nazionale è un rifugio» è lo slogan di Donadoni, un porto sicuro «dalle voci di mercato, da Vallettopoli e da tutto quanto può destabilizzarli. Per me è esattamente l’opposto, da qui a giugno ci sarà il silenzio e poi si scateneranno di nuovo tutti. Le cose sono sempre andate così? Anche mio figlio ruba le caramelle, ma non mi passa per la mente di non dirgli che non si fa. Io e la nazionale meritiamo più rispetto».
Sono le scorie della notte. Il ct, partito come variabile di un gruppo che per cinquanta giorni non ha fatto passare uno spiffero fino a sollevare una coppa del mondo, impila i primi mattoni del suo fortino. «Perché qui hai la maglia con le quattro stelle, ma giocatori e tempi sono diversi. Ogni volta è come ripartire dall’inizio». Lo sapeva prima di cominciare la sua avventura, l’ha scoperto strada (in salita) facendo. Gattuso, parlando di gioco al massacro, ci è andato giù duro. Donadoni riporta il fiume delle critiche in un alveo più naturale: «Non mi sono sentito massacrato. Anche se ci sono tanti modi per farlo, con una mazza da baseball o con il lavoro ai fianchi. Ma qui siamo tutti vaccinati, io come voi».
Tranquillizza Pirlo («sì, era scontento. E se non me ne fossi accorto sarebbe stato meglio avessi fatto il fruttivendolo»), non risponde a Sacchi che gli ha dato del permaloso («è una provocazione») e nemmeno aspetta una telefonata di Ancelotti. A proposito. L’allenatore del Milan è tornato su una rivalità virtuale: «Donadoni è un amico, ci siamo già parlati.

Avere dei sogni è un diritto, io ho quello di allenare la nazionale. Ma Roberto ha il carattere giusto per farlo e lo sta dimostrando». D’accordo. Ma qui di tenero non c’è nemmeno la notte. Di certo, non quella di Donadoni.

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