Così il governo islamico tratta i migranti in Libia

Ogni giorno a Tripoli vengono fermati migranti in viaggio verso l'Italia: "Stiamo facendo il lavoro sporco al posto vostro!"

Così il governo islamico tratta i migranti in Libia

Incontriamo il primo gruppo di immigrati al porto di Tripoli: sono stati intercettati nella notte, ci dicono, a largo delle coste di Garabulli, a poche decine di chilometri fuori dalla capitale. Le stesse acque che anche noi avevamo pattugliato con un’altra squadra, ma senza ottenere “risultati”.

Alle prime ore dell’alba ci portano a vedere i circa cinquanta uomini catturati, tutti messi a sedere in mezzo ad un immenso piazzale sotto un sole bollente. Hanno tutti il volto impaurito, stanco e non sembrano avere molta voglia di parlare. Le guardie, ovviamente tutte armate, li sorvegliano a distanza e impediscono a chiunque di alzarsi o muoversi, compresi i feriti. Alcuni soldati si avvicinano curiosi, ci chiedono chi siamo e cosa stiamo facendo e non appena ci presentiamo smettono di sorriderci: “Qui in Libia stiamo facendo il lavoro sporco al posto vostro! Dovreste ringraziarci, invece voi Italiani preferite collaborare con Toboruk!”. In effetti il Governo islamico di Tripoli sembra darsi un gran da fare: quasi ogni notte, a condizioni climatiche favorevoli, la Guarda Costiera perlustra le coste attorno alla capitale e cattura ogni mese migliaia di immigrati in viaggio verso l’Italia, ma ovviamente il trattamento riservato a questi disperati non è lo stesso garantito una volta giunti a Lampedusa. “Noi li trattiamo come clandestini” ripetono le guardie “quindi li rispediamo a casa loro”. Ma c’è un accordo con l’Europa? “No, noi impediamo a questa gente di lasciare illegalmente il paese, tutto qua”. Difficile da credere. Non si capisce come mai Tripoli offra questo “servizio” all’Europa senza pretendere nulla in cambio. Ma nessuno è disposto a sostenere il contrario, neppure il Comandante della Guardia Costiera, lo stesso dal quale otteniamo il permesso di avvicinarci al gruppo di migranti e con i quali proviamo a scambiare qualche parola.

“Sono nigeriano”, ci dice un primo ragazzo di circa 30 anni, “chi hanno fermato nella notte, eravamo partiti da poco”. “Le guardie ci hanno portato qui e per noi adesso è finita”. “Io scappo dalla misera”, continua, “ma qualcuno di noi scappa dalle persecuzioni dei terroristi di Boko Haram”. Chiediamo al gruppo se ci sia qualche cristiano presente e un ragazzo alza pronto la mano e ci fa cenno di avvicinarci. Ci facciamo difficilmente spazio tra gli altri fino a che non raggiungiamo Gabriel, un giovane ragazzo nigeriano, anche lui di circa 30 anni. “Vengo dal nord est della Nigeria” ci dice, “là i terroristi uccidono noi cristiani”. “Ci ho messo molto a raggiungere la Libia e ho speso tanti soldi, tutto quello che avevo, ma ora è finita”. Gli chiediamo dell’Italia e come mai vogliano raggiungerla e qualcuno da lontano ci urla “è la terra promessa”, altri urlano di potere avere un buon lavoro una volta in Europa e altri ancora di volere unirsi alla famiglia partita anni prima. Non sappiamo quante di queste storie siano vere, quanto possano essere reali i loro racconti di persecuzione e il tempo datoci a disposizione ci impedisce di fare domande più approfondite. Le autorità libiche non amano molto i giornalisti, soprattutto quando trattano temi come l’immigrazione. Poco dopo infatti un soldato ci viene incontro facendoci cenno di smettere. Protestiamo e la guardia ci indica un secondo gruppo, che fino ad ora non avevamo notato. Ci mettiamo a camminare e mano a mano che ci avviciniamo iniziamo a sentire pianti e urla: “Liberateci! Aiuto!”…sempre più forte. Davanti a noi, realizziamo a pochi metri, solo donne e bambini. C’è chi piange urlando, chi invece si volta e lo fa in silenzio verso il muro. Sono distrutte, sporche, ma soprattutto visibilmente piegate dal dolore di non avercela fatta. “Fate qualcosa! Dite all’Italia di aiutarci! Di dove siete? “Nigeria”, urlano in coro, “scappiamo da Boko Haram. Siamo morti tutti se torniamo indietro. Non possiamo tornare indietro”. Notiamo una bambina, sola, dice di avere 10 anni e piange da sola. Ci mettiamo in ginocchio di fronte a lei, dice di chiamarsi Radiat. Le chiediamo cosa le sia accaduto e lei tra singhiozzi inizia a raccontare: “Ci hanno fermati in mezzo al mare. Volevamo raggiungere l’Europa.” Ma tu perché vuoi venire in Italia? “Io vorrei un futuro migliore, in Europa si sta bene e non c’è la guerra”. Ma adesso sai dove andrai? “Non so cosa ci faranno, ma spero non ci rimandino indietro”. Lasciamo Radiat tra le lacrime, non potendo fare nulla per lei.

Le guardie da lontano ci urlano di allontanarci, il tempo è scaduto. Ci tengono, però, a farci vedere cosa succede “a chi prova a lasciare illegalmente il paese”. Quattro uomini ordinano al gruppo di immigrati di alzarsi e recuperare il gommone dal molo. In ordine e in silenzio un gruppo di circa trenta uomini si avvicinano all’acqua e dopo avere fissato il mezzo con delle corde lo tirano su in pochi secondi. Poi se lo caricano sulle spalle e viene loro ordinato di portarlo al centro del piazzale, “così che tutti possano vedere”. Vedere cosa?

Un uomo con un grosso coltello fa allontanare di poco gli immigrati e pochi istanti dopo, davanti agli occhi increduli di tutti noi, infilza il gommone, più e più volte, smembrandone un’intera fiancata. Rimaniamo pietrificati.

Ci voltiamo a guardare i ragazzi in piedi, tutti in silenzio e con lo sguardo basso. Poi un uomo in divisa si avvicina, si presenta, e ci dice: “Avete visto? Abbiamo distrutto il loro sogno, da oggi siamo i loro nemici”.

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