Quando si pensa alla disinformazione economica, il pensiero degli italiani corre inevitabilmente alla vicenda Parmalat. Con un’azienda sull’orlo del fallimento ma presentata immancabilmente come sana, solida, con grandi prospettive. Conseguenza di una informazione scorretta ma, generalmente, consapevole. Malafede, non ignoranza. Non era il primo caso, non è stato l’ultimo.
Da Mps all’Ilva, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Sta cambiando, però, il livello di consapevolezza di chi si occupa di informazione. Sempre meno malafede, sempre più crassa ignoranza. Non è detto che sia un bene. Perché giornalisti consapevoli non significa sempre giornalisti in malafede; giornalisti ignoranti significa, sempre e comunque, giornalisti manipolabili senza troppe difficoltà.
Per interessi di qualche banca d’affari o di qualche multinazionale. Ed in questi casi i danni ci sono, però limitati. Sempre più spesso, però, la disinformazione diventa uno strumento della politica e della geopolitica. Con conseguenze disastrose a livello di Paesi e di decine di milioni di persone.
Nonostante questo, si preferisce far finta di nulla. Si finge di non capire. La catastrofica crisi innestata dai mutui subprime nel 2007 ha evidenziato il modus operandi di una disinformazione che ha creato danni planetari. Chi controlla l’informazione, sempre più globale, controlla crisi e riprese, fallimenti e bolle speculative.
In questo scenario l’Italia ha dovuto fare i conti, tra l’altro, con le agenzie di rating. Considerate oracoli infallibili quando si è trattato di utilizzare le loro valutazioni come arma letale contro un avversario politico. Ma diventate fastidiose e poco credibili quando i giudizi negativi hanno riguardato un amico politico.
E la disinformazione economica viaggia su carta, sulla rete o in tv in ogni parte del globo. L’Argentina rappresenta un ostacolo politico? Si scatena una campagna mediatica internazionale che porta Buenos Aires ad un default tecnico che non ha nulla a che fare con la realtà e con i fondamentali economici. Il Messico cresce troppo velocemente? D’improvviso ci si accorge che il narcotraffico è un grave problema che penalizza l’immagine del Paese latinoamericano. Come se le migliaia e migliaia di morti precedenti, assassinati dai narcos, non ci fossero mai stati.
Basta poco, nella disinformazione globale, a creare panico, a far crollare le Borse, a determinare fughe di capitali e frenata dei consumi. Poche notizie, false ma mirate, provocano la scomparsa di investitori, la chiusura di aziende, l’incremento della disoccupazione.
Per giorni ci si è interrogati se la decisione di non tagliare la produzione di greggio avvantaggiasse la Russia o gli Stati Uniti. Poi si è deciso, a tavolino, che si trattava di una astuta mossa di Washington per strangolare l’economia di Mosca. Dimenticandosi di raccontare gli effetti negativi sullo shale oil americano. Ma utilizzare la disinformazione economica nella guerra contro la Russia è particolarmente facile.
In primis perché Mosca è oggettivamente in difficoltà, tra sanzioni economiche dell’Occidente e crollo del prezzo del barile di petrolio. E poi perché la Russia è un totale disastro sul fronte dell’informazione o della disinformazione. Si è persa totalmente la capacità di fare “disinformatja”, quella capacità che in epoca sovietica temeva pochi confronti. Ora Mosca è disarmata su questo fronte. In totale balia dei media occidentali. Che descrivono la Russia come un Paese economicamente allo sbando, privo di risorse o comunque non in grado di sfruttare quelle naturali di cui dispone.
E’ stata la disinformazione a creare i Bric ed a trasformarli in Brics per mere ragioni di interesse economico e politico. E’ la disinformazione che blocca lo sviluppo di nuove aggregazioni di Paesi. Perché rappresenterebbero un pericolo per la situazione esistente, per i poteri consolidati. Non basta che i Paesi siano lontani politicamente e geograficamente: anche una semplice sigla (come il Mist, composto da Messico, Indonesia, Sud Corea e Turchia) può diventare pericolosa e diventa inevitabile una campagna di disinformazione per delegittimare governi e popoli. Presto toccherà al Perù o al Cile, colpevoli di crescere troppo. O al Kazakhstan ed all’Azerbaijan, troppo ricchi.
La disinformazione economica è anche particolarmente agevole e poco costosa. Basta un’agenzia di stampa che riprenda uno studio di comodo di qualche ricercatore universitario. Un decente ufficio stampa lo rilancia e fa sì che, nei Paesi che interessano, i media locali trasformino lo studio in un articolo di analisi economica o anche solo di costume. La palla di neve della menzogna iniziale si trasforma in una valanga. Scattano accuse, polemiche, il web si appassiona, nessuno ricorda più la fonte iniziale e le menzogne, se ripetute un numero sufficiente di volte, diventano verità assolute.
“Secondo una ricerca di XYZ quell’area fertile di trasformerà in deserto entro 20 anni”. “Secondo l’analisi di Tizio e Caio quel prodotto industriale diventerà obsoleto entro tot mesi”. “Secondo l’Università di chissadove il tal Paese è destinato ad una rapida fuga di capitali ed alla rivolta sociale”. Non importa che le analisi, le ricerche e le previsioni siano corrette. La disinformazione porta all’avveramento delle menzogne e delle previsioni più inverosimili.
Manca, a livello dei media, la capacità di comprendere ciò che è vero e ciò che è falso. Manca la professionalità perché si è deciso di puntare sui tagli e non sulla qualità. Così si vedono servizi tv in cui si presentano città sovietiche 25 anni dopo la fine dell’Unione Sovietica. Semplice ignoranza, non malafede. Così tutto passa, tutto viene trasmesso, tutto viene comunicato. E chi sa fare disinformazione vince. Anzi stravince, perché gli avversari non hanno più gli strumenti per difendersi e tantomeno per contrattaccare. Nel momento in cui fare informazione costa di meno sotto l’aspetto tecnologico, diventerebbe agevole contrastare le menzogne puntando sulla professionalità.
Di chi informa e di chi gestisce le tecnologie. Invece si preferisce destinare le risorse ad altri scopi, magari con effetti più immediati ma privi di ogni valenza strategica e pure tattica.Alessandro Grandi
Senior fellow de “Il Nodo di Gordio”
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