L'America interviene in Irak. I terroristi: "Non ci fermiamo"

Sostegno di tutto l'Occidente, ma senza aiuto militare. Dalla Tunisia altri estremisti pronti a combattere con l'Isis

L'America interviene in Irak. I terroristi: "Non ci fermiamo"

È bastato pochissimo perché il traffico sui cieli dell'Irak cambiasse radicalmente. Pochi minuti dopo la mezzanotte di giovedì - quando il presidente Usa Obama aveva già comunicato la decisione di intervenire - l'emittente Abc riferiva che i cargo americani hanno cominciato a lanciare medicine, cibo e beni di prima necessità alle decine di migliaia di persone in fuga sulle montagne, nel nord del Paese. E nel primo pomeriggio il portavoce del Pentagono John Kirby annunciava che l'aviazione statunitense ha iniziato i raid, bombardando alcune postazioni dei miliziani dello Stato islamico dell'Irak e della Siria. Intanto caccia turchi sorvolano l'area nord dell'Irak per monitorare i movimenti degli jihadisti. Molte compagnie aeree, da Turkish Airlines a Ethiad, da british Airways a Lufthansa, hanno deciso di sospendere le rotte su Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, «per motivi di sicurezza», mentre le autorità per l'aviazione degli Stati Uniti hanno ordinato a tutte le compagnie americane di non sorvolare il Paese.

In Medio Oriente si è ufficialmente aperto un nuovo fronte, anche se l'offensiva violenta degli uomini dell'autoproclamato Califfato tra Siria e Irak è iniziata da mesi.

Gli Usa incassano il ringraziamento della regione autonoma del Kurdistan - per bocca di Khalid Jamal Alber, del ministero degli Affari religiosi - mentre il resto dell'Occidente accoglie con favore la scelta dell'intervento militare.

Il presidente Francois Hollande si dice pronto «a dare tutto il sostegno necessario per mettere fine alle sofferenze delle popolazioni civili», mentre da Londra David Cameron, pur escludendo un intervento militare a fianco delle truppe americane - come avvenne invece nel 2003 - ha stanziato 10 milioni di euro in aiuti umanitari. Il sottosegretario italiano agli Esteri Mario Giro ribadisce la necessità di «un'azione forte per proteggere le minoranze», proprio nelle ore in cui il viceministro Lapo Pistelli si trova a Erbil, la città dove, dopo l'invasione jihadista nella piana del Ninive, centinaia di migliaia di sfollati stanno trovando rifugio accampandosi nelle chiese cristiane.

Secondo l'organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim), con l'avanzata dello Stato islamico nell'ovest e nel nord dell'Irak le persone in fuga sarebbero addirittura un milione. Molti sono i cristiani costretti alla fuga prima da Mosul e poi dalle città conquistate giovedì dai miliziani, come Qaraqosh, Bartella e Bashiqa; ma ci sono anche gli yazidi che popolavano l'area del Sinjar.

Ieri l'ayatollah Ali al Sistani, massima autorità religiosa irachena, ha lanciato un appello all'unità della popolazione per far fronte al «grande pericolo» jihadista, mentre papa Francesco ha rinnovato l'invito alla preghiera «per i cristiani iracheni e per tutte le comunità perseguitate».

A dispetto delle intenzioni del presidente Usa di non avviare «un'altra guerra in Irak» lo scenario sembra quello di un vero conflitto: i miliziani dello Stato islamico proclamano, attraverso alcuni siti jihadisti, che continueranno la loro offensiva nel nord del Paese. Ieri una fonte irachena che ha voluto rimanere anonima, parlando da Erbil ha spiegato alla Onlus «Aiuto alla Chiesa che soffre» che «l'Isis non si farà trovare tanto facilmente».

E intanto Kamel Zarrouk, capo della cellula jihadista tunisina Ansar al Sharja, ha lanciato un appello audio che sta rimbalzando sui social network, nel quale invita i miliziani a lasciare la Tunisia per raggiungere le milizie sunnite in Irak e Siria.

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