Motori tedeschi alla Marina cinese? Cosa rivela l'inchiesta

Il quotidiano tedesco Die Welt rivela che le aziende tedesche avrebbero fornito motori ai cacciatorpediniere classe Luyang III. La Lega si domanda se Bruxelles abbia qualcosa da dire. Il nodo è politico

Motori tedeschi alla Marina cinese? Cosa rivela l'inchiesta

La stampa tedesca pubblica un retroscena che arriva direttamente in Cina. Due aziende teutoniche, Mtu e Man, avrebbero fornito motori e componenti per i ciacciatorpediniere classe Luyang III della Marina cinese. Il quotidiano Die Welt spiega che la vendita di questo tipo di componenti è formalmente regolare: la Mtu infatti ha sottolineato come non abbia "mai stipulato contratti con il ministero della Difesa o le Forze armate" di Pechino. Inoltre, come riportato da Nova, questi beni sono "a duplice uso" e la normativa tedesca non è particolarmente netta nel definire questo tipo di accordi.

Correttezza formale, ma dubbi sulla sostanza

La forma quindi c'è e non ci sarebbe nulla di irregolare. Diverso però è la sostanza: perché è chiaro che un accordo di questo tipo provocherebbe - se confermato - non pochi malumori.

In primis sul fronte atlantico, perché gli Stati Uniti da diverso tempo chiedono all'Unione europea una maggiore attenzione nei confronti della sfida alla Cina. Gli Usa vorrebbero che la Germania, potenza industriale Ue, evitasse di rafforzare i legami con Pechino. Soprattutto per quanto riguarda la Marina cinese, vero avversario strategico della Us Navy. Angela Merkel, cancelleria che non ha mai nascosto di volere una partnership commerciale proficua con la superpotenza asiatica, si appresta a cedere il passo al suo successore, Olaf Scholz. E l'impressione è che a Washington vogliano dal futuro leader socialista (a meno di clamorosi cambi in corsa) delle garanzie sulla strategia della Repubblica federale. Berlino ha deciso di inviare la propria Marina nel Mar Cinese Meridionale per dimostrare di essere attenta agli obiettivi degli Stati Uniti (e della Nato) sul fronte dell'Indo-Pacifico. Ma è chiaro che l'invio di unità militari non può che essere un rimedio "cosmetico" di fronte a una politica fortemente orientata verso le relazioni economiche con la Repubblica popolare. E sfruttare le maglie della normativa nazionale per vendere componenti alla Marina cinese sarebbe, per Pentagono e Dipartimento di Stato, un problema che dimostra come i rapporti tra partner europei e Pechino siano decisamente ramificati.

La Lega protesta

Il problema ha valicato anche le Alpi coinvolgendo direttamente la politica italiana. Marco Campomenosi, capo delegazione Lega al Parlamento europeo, ha scritto in una nota che il fatto, se confermato, "sarebbe gravissimo, un espediente per aggirare le sanzioni e le limitazioni alla vendita di armi alla Cina. Da tempo gli Usa ci avvertono dei pericoli legati all'espansionismo cinese, ma evidentemente per Berlino conta di più perseguire i propri interessi, sfruttando i vuoti normativi del regolamento sull'uso duale per armare la flotta cinese". E il leghista si domanda: "Bruxelles non ha nulla da dire in merito? Ecco perché Stati Uniti e Regno Unito si fidano poco di una Ue a trazione tedesca: tra i regimi e la democrazia, scelga da che parte stare, senza ambiguità".

I nodi dei rapporti con la Cina

In attesa di ulteriori sviluppi e conferme della vincenda, quello che risulta chiaro solo da queste prime indiscrezioni è la complessità del problema. Innanzitutto manca una regolamentazione univoca dell'Unione sull'export nei confronti di alcuni Paesi, a partire dalla Cina. Se il problema è sulle armi, a maggior ragione lo è bloccare la vendita di componenti "dual-use", cioè con un doppio scopo civile e all'occorrenza militare come nel caso dei motori per la Marina cinese. Quindi non formalmente bellici.

In secondo luogo, il problema è industriale. Decidere di interrompere la fornitura di alcuni componenti a Pechino significherebbe sovvertire un delicato equilibrio di import-export che rischia di essere l'inizio di un pericoloso effetto-domino. Gli Stati Uniti chiedono da tempo un freno a questo tipo di esportazioni, ma l'industria europea è continuamente alla ricerca di clienti. E specialmente in una fase di contrazione economica, la richiesta deve essere accompagnata anche da assicurazioni economiche per evitare buchi nel bilancio.

Infine, il nodo politico: l'Europa non parla a una sola voce e nei confronti di Pechino ha diverse anime, non tutte unite nel condannare le azioni della Repubblica popolare. Questo significa che i Paesi si muovono in ordine sparso e nessuno è in grado di rinunciare spontaneamente a un determinato tipo di affari. L'esempio più eclatante fu quando l'allora governo Conte I decise di siglare il memorandum sulla Via della Seta scatenando l'ira di Washington mentre Francia e Germania, senza siglare accordi di ingresso nel progetto cinese, concludevano affari per decine di miliardi di euro. Ben superiori a quelli previsti nel memorandum esaltato dall'esecutivo a guida Giuseppe Conte.

Nessuno sembra dunque convinto di evitare accordi con Pechino.

Tantomeno un Paese come la Germania che non solo ha profondi legami con la Cina, ma ha da sempre svolto una politica industriale fortemente votata all'esportazione e ad accordi con diverse potenze, anche non molto affini a Washington. L'eredità della Merkel è anche questa.

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