A parte l’uso del neologismo «fake news» da parte della Russia per cercare di demolire le accuse contro Assad, al Palazzo di Vetro si è tornati ai tempi della guerra fredda: si apre una crisi, i tre Paesi occidentali con seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza sposano una versione e propongono una risoluzione, la Russia – talvolta sostenuta dalla Cina, talvolta no – ne sposa una opposta e mette il veto. Era la norma negli anni precedenti la dissoluzione dell’Urss, ha conosciuto qualche eccezione negli anni Novanta quando era sembrato possibile integrare Mosca nel «sistema», è tornato la regola da quando i contrasti con Putin si sono progressivamente accentuati. L’orribile vicenda di Khan Sheikun ripropone il vecchio copione: Usa, Francia e Gran Bretagna denunciano, con prove inoppugnabili, che la morte di 85 civili è stata causata dal vietatissimo gas sarin, ma (nonostante l’avallo dei servizi israeliani) non riescono a dimostrare oltre ogni dubbio che a usarlo sia stato il regime; ciò nondimeno, chiedono una severissima risoluzione di condanna per Assad.
La Russia, alleata e protettrice di Damasco, ribatte che si è trattato di un incidente, cioè di una bomba che ha fatto saltare un deposito di armi chimiche dei ribelli (la cui esistenza era già stata denunciata in passato), ed è pronta a sostenerlo con una propria risoluzione. Si rinvia il voto nella speranza di trovare una soluzione di compromesso tra i due documenti, ma visto che sostengono tesi inconciliabili non si capisce quale utilità ciò possa avere, se non a dimostrare ancora una volta che il CdS, nella sua forma attuale, è un organismo da rottamare. Al massimo, può servire ai vari Paesi per dare la massima pubblicità alle loro frustrazioni, come ha fatto mercoledì l’America, quando sia per bocca di Trump, sia di quella dell’ambasciatrice Haley ha fatto sapere che, se l’Onu non provvederà, ci penserà lei (senza peraltro specificare né come, né quando). In ogni caso, dopo questo scontro, finiranno col saltare anche i negoziati di pace che la stessa Onu era riuscita a mettere faticosamente in piedi con la regia di Staffan de Mistura, e la parola tornerà alle armi. La tragedia è che l’Onu finisce con l’essere impotente anche nei rari casi in cui i membri permanenti concordano.
Vedi il caso della Corea del Nord, all’esame proprio in queste ore nei colloqui Trump-Xi, in cui tutti i cinque hanno votato sanzioni via via sempre più severe per cercare di fermare la corsa di Kim Jong-un all’arma nucleare. È successo che Pechino, dopo avere aderito alle varie risoluzioni, ha finito con l’osservarle solo nella misura in cui le faceva comodo e che il giovane dittatore ha ben presto trovato il modo di evaderle. Più utili sono state, forse, quelle contro l’Iran, ma anche qui si è infine arrivati a un (cattivo) accordo solo perché l’America di Obama ha accettato di mandare giù diversi rospi. Paradossale, poi, è l’atteggiamento che l’Onu, forte della sua maggioranza terzomondista nell’Assemblea generale e in vari organismi collaterali, ha nei confronti del conflitto israeliano-palestinese.
Da decenni produce a ripetizione documenti di talvolta incredibile parzialità contro lo Stato ebraico, ignorando situazioni molto più gravi, ma senza che sul terreno sia cambiato nulla. Ora, Trump ha fatto sapere che intende mettere fine a questo andazzo, ma non sarà facile.
La triste realtà è che, con l’eccezione di qualche conflitto periferico soffocato o almeno controllato dai Caschi blu (di sempre più difficile reperimento), l’Onu quasi mai riesce a essere risolutiva nelle grandi crisi; al massimo, attraverso le sue varie agenzie come l’Unicef, ne limita a posteriori i disastri. Ma, come nella vicenda delle grandi migrazioni, riesce talvolta anche ad accentuarli- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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