Rivolta a Hong Kong, lacrimogeni sulla folla. Pechino invia i soldati

La Cina cerca di addomesticare le future elezioni locali. Tradita la promessa di garantire una piena democrazia

Poliziotti spruzzano spray irritante al peperoncino contro i dimostranti nel centro di Hong Kong
Poliziotti spruzzano spray irritante al peperoncino contro i dimostranti nel centro di Hong Kong

Alla fine i nodi di Hong Kong sono venuti al pettine e ora c'è il rischio che scorra il sangue in una specie di Tienanmen un quarto di secolo dopo quella che insanguinò Pechino nel giugno 1989. La pretesa del regime cinese di addomesticare le prossime elezioni a suffragio universale per il consiglio locale sta scatenando la protesta non solo di decine di migliaia di studenti, ma anche di altrettanti cittadini adulti, ormai consapevoli che nella ex colonia britannica si sta vivendo un passaggio chiave e che in gioco c'è la possibilità stessa di vivere in una società libera.

La grande folla che ormai da tre giorni occupa il centro della città e assedia la sede del governo chiedendo democrazia vera e non un surrogato al servizio di Pechino non intende mollare ma è sempre più in difficoltà. Nel quartiere della finanza ci sono stati violenti scontri, ma fino alla tarda serata di ieri la polizia si era «limitata» a usare lacrimogeni e idranti, mentre i movimenti dei manifestanti erano ostacolati non solo da cordoni di agenti in tenuta antisommossa ma anche dal blocco di internet imposto dalla polizia nei quartieri centrali di Hong Kong per impedire ada esempio comunicazioni rapide via twitter.

Verso la mezzanotte, però, gli studenti organizzatori della più grande manifestazione di protesta contro Pechino a Hong Kong dal 2005, occupando oltre 800 metri della grande arteria stradale che divide la città, hanno annunciato su Facebook che si ritirano dal centro perché avvertiti che la polizia intende usare anche pallottole di gomma. La protesta è però proseguita più a nord, verso Kowloon. I circa settemila militari della guarnigione cinese a Hong Kong sarebbero pronti a usare la forza e circola voce che siano state procurate migliaia di uniformi della polizia locale per farli sembrare più rassicuranti agenti.

Lo stesso Chan Kin-man, leader del movimento Occupy Central che prende di mira la grande finanza locale connivente con Pechino per garantire i propri profitti, ha invitato i manifestanti a ritirarsi: «È una questione di vita o di morte e noi poniamo la sicurezza della gente al primo posto. Ritirarsi non significa arrendersi...continueremo la lotta». Anche il cardinale Joseph Zen, fino al 2009 arcivescovo di Hong Kong e in prima fila con gli organizzatori della protesta, ha esortato tutti a tornare a casa: «È molto chiaro che non ci può essere alcun dialogo con questo regime. Una vittoria che richieda il sacrificio di vite non è una vittoria».

Le parole del cardinale centrano il punto. Il presidente cinese Xi Jinping non intende concedere alcunché ai fautori della democrazia a Hong Kong. Come tutti i dittatori, sa bene che permettere un libero confronto di opinioni è il primo passo verso la caduta certa di un regime a partito unico come quello del partito comunista in Cina. Per questo sta truccando le carte a Hong Kong, nonostante la promessa fatta oltre vent'anni fa dal suo predecessore Deng Xiaoping alla allora premier britannica Margaret Thatcher di garantire per un altro mezzo secolo le libertà democratiche nella colonia poi ceduta a Pechino nel 1997.

La formula «un Paese, due sistemi» è troppo rischiosa per essere onorata fino in fondo.

Xi pensa quindi di addomesticare l'elezione popolare del Chief Executive nel 2017 facendo preventivamente scegliere i candidati in una rosa ristretta e a lui gradita da una «commissione elettorale» asservita. Un trucco che a Hong Kong, dove l'informazione e l'accesso a internet sono ancora sufficientemente liberi, hanno preso molto male.

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