Le montagne russe dell’emozione

Sei lì, davanti a una scatola rettangolare di vetro. Dentro, pochi centimetri di tuo figlio, il cappellino di lana, i tubicini che finiscono con le «farfalline» e gli aghi piantati negli arti, gli apparecchi di cui hai imparato il nome e anche a cosa servono: l'ambu, il saturimetro... Da giorni lo stesso rituale: stai lì, aspetti, guardi con affetto, accarezzi con gli occhi, ti agiti se un macchinario incomincia a emettere un suono d'allarme, interroghi con lo sguardo medici e infermieri, ti innervosisci se non ti sembrano abbastanza celeri nel rispondere alle tue mute richieste d'aiuto.
In questi giorni hai imparato anche che alle domande non si hanno risposte. Non le capisci, non le capiresti. Sai soltanto che tutte le speranze, i sogni, le fantasie che avevi riposto nell'immediato futuro sono svanite, cancellate da una sindrome che ha il nome di un maghetto e che a te, ma soprattutto a lui, ha riservato il peggiore degli incantesimi: Potter. I medici da giorni ti dicono che non c'è nulla da fare, anzi sì, che forse ce la fa ma bisogna aspettare, che devi avere fiducia, ma senza farti illusioni, che puoi sperare. Le montagne russe dell'emozione rischiano di portarti al corto circuito nervoso. Ti fai forza, cerchi di far coraggio a tua moglie che a sua volta vive le tue stesse emozioni decuplicate dal fatto di esser mamma e vuole esserti d'aiuto nel difenderti dal ciclone che ha spazzato la vostra vita.
Ti hanno detto che non bisogna più chiedere: «Come sarà? Che vita avrà mio figlio?». La parola «sano» ti hanno imposto di dimenticarla. L'unica domanda ammessa, che però resta inutile perché nessuno può darti risposta certa è: «Ce la farà?». Lo vedi lì, nella sua cassetta di vetro, e speri che lui - benché così piccolo - abbia la forza e il coraggio che a te stanno iniziando a mancare.
E ti interroghi se è vita e che vita puoi offrire, può offrire questo mondo, a chi nasce senza reni, ureteri e vescica. A chi ha i piedi torti e non potrà né correre né camminare. Vedi gli altri neonati ed è evidente che sono diversi. Ti trovi a pensare che tuo figlio non potrà giocare come gli altri, con gli altri. Lo guardi e a volte pensi che senso abbia il calvario che sta vivendo, martoriarlo con gli aghi che lo bucano come un puntaspilli perché non trovano le arterie, infliggergli ogni sorta di (necessario) fastidio. Sai che non soffre perché è sedato, ma «senti» il suo dolore, i suoi lamenti.
Poi - dopo un mese - ti vengono a parlare di una possibilità, di una cura lunga e difficile, ma anche di una speranza. L'ennesima, dopo che te le avevano tolte tutte. E mentre ti interroghi, non sai decidere, cerchi una risposta tra cuore e cervello e ti rendi conto della tua pochezza, di quanto sei in balìa degli altri, di quanto poco conosci e sai, ecco che un giudice dice che non sei un buon genitore, che non lo è tua moglie, che il medico ha ragione «a prescindere», che non esiste accanimento terapeutico, che di certo non si fa sperimentazione sulla pelle dei neonati. Che decide lui, magistrato, e non tu padre, non tu madre.


E allora continui a star lì davanti a quella cassetta di vetro, con lo sguardo assente e il sorriso un po' ebete, a guardare tuo figlio e ad aspettare. Che i medicinali funzionino, che lui inizi a rispondere alle cure, che avvenga il «miracolo». Che qualcosa accada. Non sai cosa fare, non puoi far altro.
Mario Celi

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