Una mostra per riscoprire Gherardi, «reatino di Roma»

Laura Gigliotti

È poco noto, sebbene sia spesso citato negli inventari delle grandi famiglie romane e abbia affrescato chiese e palazzi della città, Antonio Gherardi (1638-1702), il pittore, architetto e decoratore reatino che a Roma trascorse gran parte della vita. La piccola e preziosa mostra (Sala Altoviti di Palazzo Venezia fino al 5 febbraio, catalogo Artemide), curata da Lydia Saraca Colonnelli insieme a Morena Costantini, è quindi una sorta di atto riparatorio. È a Roma infatti che si trovano i principali cicli decorativi di Gherardi, primo fra tutti la Pala di Santa Cecilia dei Santi Biagio e Carlo ai Catinari. Gherardi ha quasi vent’anni quando, dopo la peste scoppiata a Rieti, giunge a Roma col cardinale Bulgarini che lo introduce nella bottega di Pier Francesco Mola a San Sebastianello, dove lavora accanto a un altro giovane emergente, Giovanni Bonatti. Sono loro i prescelti per la decorazione della Sala dell’Accademia nel palazzo della Regina Cristina di Svezia alla Lungara (andata perduta), dove si cimentano in quel «sott’insù» che tanto piace alla sovrana. Un genere che Gherardi ha conosciuto durante il viaggio a Venezia dove subisce la suggestione del colorismo veneto e del Veronese.
Al ritorno dal Nord ha l’incarico di decorare con le storie della Vergine la chiesa di Santa Maria in Trivio. Qui Gherardi dispiega tutta la sua vena di narratore. Prospettive, gesto teatrale, densa materia pittorica nelle vele e nei pennacchi della volta. Come accadrà a Palazzo Naro nel rione Sant’Eustachio con le storie di Ester e Assuero, dove insistiti appaiono i rimandi al Veronese. Nelle architetture, nelle scene, nei drappeggi degli abiti intrisi di luce, nei gioielli che adornano le vesti, nei caldi incarnati, nei colori sensuali dei damaschi, delle sete, dei velluti, È del 1680 la cappella Avila di Santa Maria in Trastevere, «capricciosa e bizzarra» secondo un contemporaneo, fulcro prospettico la tavola di San Girolamo. L’artista, in contrasto con il magistero del Bernini, riduce al minimo gli effetti pittorici e plastici.
Opera tarda del maestro passato attraverso l’esperienza di Mola e Pietro da Cortona, la grande pala di Santa Cecilia è commissionata dalla Congregazione dei Musici, poi Accademia di Santa Cecilia, auspice il potente e colto cardinale Pietro Ottoboni. I Musici, ricevuto lo jus patronato della cappella dai Barnabiti, hanno l’obbligo di eseguire canti e musiche nelle più importanti ricorrenze. Affidata per l’architettura a Carlo Rainaldi che muore poco dopo, la cappella realizzata interamente da Gherardi, che riesce a fondere armonicamente architettura, scultura e pittura. Il restauro della pala, considerata il suo capolavoro, togliendo le maldestre ridipinture ottocentesche ha restituito a Santa Cecilia la sua brillante cromia e l’originaria iconografia documentata in un antico disegno.
Restaurate col contributo della Federazione Maestri del Lavoro, anche due opere della collezione Colonna, «Mosè consegnato alla balia», e «Cimone e Pero», messe a confronto con «San Leonardo libera un carcerato», ora al Museo Civico di Rieti.


In mostra anche una splendida croce d’altare, acquistata sul mercato antiquario, in legno di pero, ebano, bronzo e lapislazzuli del XVII secolo, opera del fiammingo Jacob Cornelius Cobaert e della bottega di Bernini.
Museo Nazionale del Palazzo di Venezia, Sala Altoviti, via del Plebiscito 118. Orario: da martedì a domenica 8.30-19.00, lunedì chiuso. Fino al 5 febbraio 2006.

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