Si fa presto a dire «dittatore», mollando al suo destino un personaggio come Hosni Mubarak, che santo non è ma per trent’anni ha rappresentato l’alleato più fidato del mondo libero nella polveriera mediorientale. In Egitto si andava alle urne pro forma, ma non era certo la Corea del Nord, vera dittatura di stampo comunista.
In Medio Oriente, con le rivolte dai nomi floreali, torna di moda l’ipocrisia internazionale. Leader vezzeggiati fino al giorno prima, anche se il loro pedigree democratico è sempre stato discutibile, vengono scaricati dalla sera alla mattina. O addirittura trasformati in mostri, come toccò a Slobodan Milosevic. Lo zar serbo fu prima dipinto come la colomba della pace che mise fine alla guerra in Bosnia. Poi, quando si piazzò di traverso in Kosovo, diventò il dittatore dei Balcani da bombardare. Altri, come Saddam Hussein, erano tiranni veri, ma per dieci anni, hanno fatto un favore agli americani nella lunga e sanguinosa guerra con Khomeini.
Mubarak, principe dello stato di diritto rispetto a Saddam, è stato velocemente scaricato come un’auto usata a cominciare dall’amministrazione americana. E pensare che ancora nel 2009 veniva accolto alla Casa Bianca con parole di elogio superlative. Il presidente Barack Obama lo ringraziò addirittura per la visita che Hosni gli aveva organizzato alle piramidi.
In questi giorni di rivolta sembra che i buoni siano solo quelli che innalzano cartelli contro «Mubarak dittatore» e i cattivi, oltre che prezzolati, tutti gli altri rimasti fedeli al Raìs. Non c’è dubbio che dopo 30 anni di regime Mubarak deve passare il testimone. Apriti cielo, però, se Silvio Berlusconi dice che «tutto l’Occidente, Stati Uniti in testa, ha sempre considerato (il presidente egiziano nda) l’uomo più saggio e un punto di riferimento preciso per il Medio Oriente». Dieci giorni di rivolta in piazza hanno cancellato i freschi ricordi di quando si scongiurava Mubarak e il suo braccio destro, Omar Suleiman, di fare qualcosa per gli impantanati negoziati fra palestinesi e israeliani. Nella guerra sporca al terrorismo e per contrastare lo spauracchio nucleare degli ayatollah iraniani si è sempre fatto affidamento sull’Egitto, senza usare i guanti bianchi. Non solo: Mubarak, bollato come l’ultimo faraone, ha mantenuto la pace con Israele fino ad oggi.
L’ultimo tassello di un mondo ipocrita è la legge svizzera che restituisce ai loro popoli oppressi le fortune accumulate dai dittatori, veri e presunti, sui conti delle banche elvetiche.
Anche Mubarak e la sua famiglia sono a rischio esproprio. Secondo l’Abc americana, fra moglie e figlio, il patrimonio del clan si aggirerebbe fra i 40 e 70 milioni di dollari. In gran parte investimenti immobiliari negli Usa, ma pure conti correnti sostanziosi nell’immancabile Svizzera.
La scrupolosa legge elvetica ha visto la luce martedì scorso. Il primo a subirne le conseguenze è stato Ben Alì, il presidente tunisino travolto dalla piazza. Anche in questo caso abbiamo dimenticato che andò al potere grazie ai servizi segreti italiani. E di non aver mai alzato significativamente un dito contro le sue rielezioni bulgare e dubbie. Grazie alla nuova legge il ministro degli Esteri svizzero, Micheline Calmy-Rey, ha ordinato il congelamento dei fondi di Ben Alì. Peccato che i conti a Zurigo, Ginevra, Losanna vengono sequestrati solo dopo la caduta del «dittatore» e se il Paese di origine lo richiede. Un capolavoro di ipocrisia: prima i banchieri svizzeri possono continuare ad accumulare interessi, come è capitato per anni con i depositi del filippino Marcos o del liberiano Charles Taylor, quello dei diamanti di sangue.
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