Mubarak: "Mi dimetterei ma non posso farlo" Intanto al Cairo è caccia aperta agli occidentali

In un'intervista il presidente egiziano, sempre più in difficoltà, spiega la sua linea: "Senza di me sarebbe il caos. A Obama ho spiegato che non lascio, lui non conosce il mio Paese". Al Cairo i sostenitori di Mubarak aggrediscono per strada giornalisti e operatori umanitari. L'Ue al regime: "Subito transizione"

Mubarak: "Mi dimetterei ma non posso farlo" Intanto al Cairo è caccia aperta agli occidentali

Tamponare. Il giorno dopo la guerra, in Egitto la parola d’ordine è tamponare. Mubarak è solo ma non si piega. In un’intervista dice: «Dopo 62 anni al servizio del pubblico ne ho abbastanza. Voglio andarmene, non voglio vedere gli egiziani in lotta tra loro. Mi dimetterei se potessi, ma temo il caos. Morirò in questa terra». Il Faraone resta lì, asserragliato a palazzo, le guardie fuori a vigilare. Gli è rimasto fedele solo l’esercito, che resta a difendere il vecchio Faraone. Bisogna fare in fretta, limitare i danni, restare aggrappato in sella. Anche se questo significa esporsi anche con gli americani, rispondere a muso duro anche al presidente Obama che gli chiede di andarsene. «Tu non capisci la cultura egiziana e quello che succederebbe se io dovessi dimettermi», gli ha detto Hosni che forse si è sentito tradito dal suo vecchio alleato. Fuori gli attacchi sono sempre più pesanti. Tutto troppo veloce, incontrollabile. La rivoluzione partita dai ragazzi di Facebook mercoledì è diventata sangue e bastoni. Eppure in piazza Tahrir c’erano i fiori nei cannoni e i militari facevano salire i bambini sui carri armati parcheggiati. Ma quelle immagini sono solo una parentesi sbiadita, perché intanto sono arrivate truppe cammellate armate e allora la violenza non si è più fermata. La piazza ha puntato il dito contro il dittatore, ma il governo nega. Anzi, fa molto di più, promette un’inchiesta sui veri mandanti e chiede scusa. Il premier Ahmed Shafiq ha parlato in tv: «Un errore fatale e mi scuso. Vi prometto che i colpevoli saranno puntiti. E poi accusare il governo di aver mobilitato tutto questo è pura fantasia, noi vogliamo riportare la calma».
Mubarak osserva e pensa a cosa fare. Manda avanti il vice Suleiman che promette riforme e chiede tempo: almeno 70 giorni per un Egitto migliore. «Il presidente ha studiato le richieste dei giovani e ha definito un percorso». A palazzo intanto si cercano vie d’uscita e soluzioni. Quando fuori è guerra, a palazzo è dialogo. Si tratta perché Hosni non lascerà il Paese come Ben Alì. Lui non scapperà, ma resterà in sella per dirigere la transizione. E intanto ci sarà l’inferno. L’opposizione, Fratelli musulmani in testa, hanno ribadito che «Non ci sarà dialogo fino a quando Mubarak non se ne sarà andato». Suleiman ribatte e contrattacca: «Abbiamo già tenuto una prima riunione». Ma subito la smentita dell’opposizione che ripete come un disco rotto: prima va via Mubarak e poi si dialoga. Richiesta «inaccettabile» per il governo. Per tentare di calmare gli animi interviene Suleiman che ripete che nè Mubarak, né il figlio Gamal, nè lui stesso si candideranno. Ma non basta. Neppure quando Suleiman ipotizza di anticipare le elezioni ad agosto. Ma non è tranquillo il Faraone, che congela i conti e vieta al ministro degli Esteri di lasciare il Paese. Si gioca il tutto per tutto, per questo gli egiziani sono stati inondati di messaggini a favore del presidente.

A denunciarlo è la stessa Vodafone, la compagnia telefonica, che ha raccontato di essere stata costretta a farlo dietro pressioni del governo del Cairo. Poi, l’ultimo appello quasi una preghiera di Suleiman: «Chiedo ai giovani di lasciare piazza Tahrir perché le loro domande sono state accolte». Ma nessuno lo ascolta.

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