Multa a Galeazzi: ecco quanto vale il «vaffa»

Multa a Galeazzi: ecco quanto vale il «vaffa»

«L’uomo della strada indovina sempre la professione della madre di ogni passante», parola di Jorge Luis Borges. Insulti e parolacce, censurabili certo, ma come farne a meno? Il problema però è che hanno un prezzo. Nel caso di Giampiero Galeazzi 300 euro sotto forma di multa, inflitta ieri dalla Cassazione. La colpa linguistica del giornalista è stata di dare del «meridionale di m...» al portiere del suo condominio, responsabile secondo Galeazzi di non consegnare puntualmente la posta. «Non sei capace neppure di guardare le pecore», ha aggiunto il giornalista davanti a testimoni e non è bastata la sua richiesta di clemenza, viste le presunte inadempienze del custode. «Non giustificano la violenta aggressione verbale», ha sentenziato la Suprema corte, confermando la decisione del tribunale di Roma del giugno 2010, che comunque aveva ridotto la multa rispetto agli iniziali 500 euro stabiliti dal Giudice di pace.
Ma il borsino delle parolacce non si esaurisce qui. Se si mettono insieme le sentenze dei tribunali, si ottiene un tariffario ricco e a volte paradossale. Un esempio su tutti. Il tribunale di Como nel 2003 ha condannato una pensionata di 72 anni che aveva bollato la nuora come donna di facili costumi (è un eufemismo) a pagare 5 euro di risarcimento alla parte offesa. L’identico insulto, rivolto però da una nuora milanese alla suocera, nel 2005 è costato alla colpevole ben 450 euro. Una disparità di trattamento simile a quella decisa dalla Cassazione lo scorso anno. Un’impiegata di Ascoli Piceno è stata condannata tra l’altro a pagare 1.200 euro di spese processuali per aver detto «stronza» e «vaffa...» al proprio capo donna, nonostante sostenesse che certe espressioni sono di uso comune in ambito lavorativo. I giudici hanno risposto che le parolacce sono ammesse se rivolte ai colleghi di pari grado, ma non ai superiori.
Vittorio Sgarbi deve aver dedicato una voce del proprio bilancio personale alle multe per le ingiurie rivolte ai suoi interlocutori. Nel 2008 durante Annozero, per citare solo un episodio, ha dato del «pezzo di m...» a Marco Travaglio. Condannato inizialmente a pagare 30mila euro, Sgarbi ha rincarato la dose: «Mi correggo. Travaglio non è un pezzo di m... ma una m... tutta intera». Così i 30mila euro sono diventati 35mila. È andata meglio ad Alfredo L., che nell’agosto del 2001 è stato assolto «perché il reato non sussiste» dall’accusa di ingiuria. Durante una riunione di condominio aveva detto «sei un rompicoglioni» a un vicino di casa che non la finiva di parlare e di lamentarsi. L’epiteto non è lesivo della persona, hanno sentenziato i giudici, «per l’uso ormai invalso e socialmente accettato».
È invece ingiuriosa, sempre secondo la Cassazione, una parola che potrebbe sembrare più soft: «Scemo». Nel 2005 Giulio B., 52enne toscano, non è stato graziato dai supremi giudici cui aveva fatto ricorso ed è stato rimandato al Giudice di pace di Carrara che ha dovuto anche stabilire un risarcimento danni all’uomo che aveva insultato.
Nello stesso anno a Trieste durante un’aggressione ad alcune persone di colore un italiano di 25 anni aveva pronunciato anche pesanti parole: «Sporco negro». Ma la Cassazione cui si è rivolto l’ha assolto in merito all’accusa di ingiurie. Il motivo? Quell’espressione non denoterebbe necessariamente un intento razzista, ma «generica antipatia». Non può mancare, a proposito di parolacce, l’aneddoto politico.

Era il 1993 e Stefania Craxi diede del «grandissimo stronzo» a Francesco Rutelli, che aveva parlato male di Bettino Craxi. La Craxi fu condannata a una multa di 50mila lire. Che pagò con alcuni bollettini postali che riportavano nella causale: «Per aver chiamato stronzo Francesco Rutelli».

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