«“O tu che vieni al doloroso ospizio”/ disse Minòs a me quando mi vide,/ lasciando l’atto di cotanto offizio,/ “guarda com’entri e di cui tu ti fide;/ non t’inganni l’ampiezza de l’intrare”./ E ’l duca mio a lui: “Perché pur gride?/ Non impedir lo suo fatale andare:/ vuolsi così colà dove si puote/ ciò che si vuole, e più non dimandare”». Quel «doloroso ospizio» è forse il primo ossimoro presente nella Commedia di Dante. Siamo infatti nel canto V dell’Inferno, dove il figlio di Giove ed Europa sta, mulinando la coda, all’entrata del secondo cerchio, custode burbero e inquietante. Il «doloroso ospizio» è dunque un ospizio inospitale, una casa che è una prigione, la vita che muore. Dante profeta, sui «dolorosi ospizi» di oggi dove tramontano i nostri vecchi? Un tempo li chiamavano proprio così, «ospizi». Poi, tentando di diluire agli ospiti il dolore dell’abbandono con l’acqua fresca della compassione, si passò a «case di riposo», o «pensionati», o «istituti». Dalla metà degli anni Novanta, quando già i nostri vecchi erano più numerosi dei nostri giovani, divennero «Rsa», ovvero «Residenze sanitarie assistenziali». Vi misi piede una sola volta, per far visita a nonna Ester, e spero di non farlo più. No, non vidi gente maltrattata, né sporcizia, né incuria, né squallore. Vidi una residenza dignitosa dove si prestavano cure sanitarie con spirito assistenziale, come da definizione governativa. Ma in quella comunità di solitudini (altro, piccolo, ossimoro) vidi la morte come non l’avevo vista, tanti anni prima, sul volto dei nonni Pierino ed Enrico, composti nei loro letti, o come l’avrei vista su quello di mio padre Silvano, giacente non nel suo letto, però a casa sua. Nonna Esterina, invece, è come se si fosse dissolta nell’aria, un’anima portata via dal vento impetuoso e frettoloso della contabilità di posti e tariffe, domande di pietà e offerte di silenzi.
La tragedia di Milano è tale perché, come nell’inferno dantesco, sono state le fiamme a portar via sei persone. Nel maledetto biennio 2020-21 era stato il virus a banchettare sulle spoglie di migliaia di anziani che in strutture simili avevano trovato (o sperato di trovare) ricovero. Ma lì, tutti i clienti ai quali è rimasto ormai poco da mettere sul tavolo del dare e dell’avere, ogni giorno vivono intimamente una tragedia. La Rsa è un non luogo diverso da quelli descritti, proprio all’inizio degli anni ’90, da Marc Augé.
È l’unico che sta fermo, a meditare su sé stesso. Non partecipa alla corsa contro il tempo caratteristica della società attuale che l’antropologo francese chiama surmodernité, perché sa che il tempo, e molto a breve, l’avrà vinta.
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