Nel «Crepuscolo» brillano i cantanti. E Tate è un maestro

Venezia Indizi, diceva Hercules Poirot, se ne possono trovare dappertutto; ma poi spetta alle piccole cellule grigie del cervello collegarli e valutarli. Persino il viaggiatore musicale può compiere il lavoro suggerito dall’investigatore di Agata Christie. Per esempio, si accorge che, in questi anni, il teutonico mito della Tetralogia di Richard Wagner è stato riletto in molte forme diverse, ma che hanno in comune un carattere, la fatuità borghese degli Dei. A Venezia si sono appena concluse le recite del Crepuscolo degli Dei con la densa partecipazione umana dell’eccellente direttore Jeffrey Tate e con la regia inconsueta del mirabile regista Robert Carsen, a conclusione del ciclo: un mondo di detriti, di disastri, dove i fili del destino sono perduti o spezzati, e dove il regno degli Dei è poco più che una sala di comando militare: ma come nella stupenda rappresentazione senza scenografia di Graham Vick a Lisbona e come nell’eccitante trasposizione nel mondo dei robot della Fura dels Baus a Firenze, capaci di dolore, di tragedia e di riscatto sono solo gli umani, come se una forza interiore li animasse lontano da miti ancestrali e da imbarazzanti gerarchie.
Qui a Venezia, l’ambientazione è parsa come un disvelamento contro la solennità ufficiale dei luoghi e la celebrazione della natura, presenti nelle didascalie originali; ma anche una grande chiarificazione degli eventi, dei contrasti, delle colpe e del sacrificio.

Merito anche d’una compagnia di canto molto espressiva, tra cui bisogna citare almeno Gidon Sak, Hagen, e Jayne Casselmann, Brunilde: su lei Carsen fa scendere alla fine una sottile, rigenerante pioggia purificatrice. Discutibile o esaltante, quest’interpretazione salda gli aneliti romantici con le urgenze d’oggi, e continua a celebrare Wagner come poeta e profeta.

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