Nel Paese degli onorevoli Paperoni

Gli italiani hanno scoperto, i più immagino con sbalordimento, che un reddito di 70mila euro lordi l’anno - e fosse anche 100mila il discorso non cambia molto - li colloca tra i ricchi: e che di conseguenza su quel reddito faraonico deve abbattersi implacabile la scure fiscale. Lascio ad altri il compito di commentare esaurientemente queste valutazioni d’un governo che sosteneva di volersi ispirare alla serietà e dalla serietà così clamorosamente divorzia. Mi limito, al margine della Finanziaria, a qualche osservazione che, nell’imperversare di prediche sul rigore e sulla equità sociale, riguarda proprio i pulpiti dai quali le prediche ci vengono elargite. Ammetto che qualche scriteriato possa anche, nel nome di obsoleti principii egualitari, accanirsi contro i Paperoni dei 70mila o 100mila euro annui. Non ammetto tuttavia che questa impostazione provenga da chi, come i legislatori della Repubblica italiana, da un trattamento non da 70mila o da 100mila o da 150mila euro, ma molto di più, e dal suo scranno dorato vuol fare le pulci ai cittadini il cui reddito fisso basta per una esistenza decorosa e non più.
Per verità qualche sintomo di autocritica, seppure sommesso e cauto, non è mancato: Alfonso Gianni, sottosegretario di Rifondazione al ministero dello Sviluppo, ha riconosciuto che bisogna incidere sugli sprechi «a partire dagli stipendi dei parlamentari e dei sottosegretari». Ma al di là di questo riconoscimento verbale non rammento misure concrete e sollecite per attenuare lo scandalo delle dilapidazioni. Diciamo le cose con schiettezza. Alcuni provvedimenti dolorosi possono essere inevitabili e non prorogabili all’infinito. È probabile che il sistema pensionistico debba essere modificato, e l’età dell’acquiescenza allungata. Ma per decenza il Parlamento non può nemmeno abbozzare misure risanatrici di questo tipo se prima non cancella i privilegi pensionistici che deputati e senatori - delle precedenti legislature, ma la sostanza rimane la stessa - si sono attribuiti, e che pur tra venti e maree impavidamente resistono. E così avviene, se ben ricordo, che i parlamentari abbiano diritto alla pensione non dopo decenni di pagamenti contributivi, come la gente comune, ma dopo mezza legislatura. Ogni iniziativa di austerità per Camera e Senato è corretta e contraddetta dalla pratica di piccoli colpi di mano. Si obietta, di solito, che nell’oceano dei conti pubblici questo tipo di spese è poca cosa. Tanto poca non mi sembra. Ma il problema di fondo è quello dell’esempio. Di un minimo di coerenza fra il dire e il fare.
C’è un tacito accordo bipartisan per ridurre, in un futuro quanto più possibile remoto, il numero dei parlamentari. Il che secondo logica deve comportare anche una riduzione degli edifici e dei locali che al Parlamento sono assegnati. Avviene invece il contrario. Camera e Senato dilagano sempre più fagocitando un palazzo dopo l’altro, con una bulimia silente e crescente alle spalle di Pantalone. Il vizio d’una eccessiva generosità verso i rappresentanti del popolo, dai rappresentanti stessi attuata, è centrale e periferico. La maggioranza degli enti locali italiani è retta dal centrosinistra, apostolo della serietà e del rigore, e cosa è accaduto nel frattempo? Che le indennità dei consiglieri regionali siano state accresciute dovunque, tanto da portarle al livello delle indennità spettanti ai parlamentari nazionali. I quali parlamentari nazionali - ed europei - hanno ottenuto di guadagnare molto di più dei loro colleghi di altri Paesi.


Questo è il quadro che si presenta al contribuente nel momento in cui gli si intima di svenarsi. Lo vuole, dicono, la giustizia sociale. In pratica lo vogliono ministri, sottosegretari, deputati e senatori con le loro auto blu e le loro immarcescibili nicchie di privilegio.

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