Ma nella vita Scamarcio sono io

Ma nella vita Scamarcio sono io

Da mesi un po’ tutti m’andavano ripetendo: «E via, di che ti preoccupi! Anzi dovresti essere soddisfatto. Sai chi ti interpreta? Scamarcio, l’idolo delle ragazzine, il nuovo bello del cinema italiano». Non nego che il giovane Scamarcio sia un bel ragazzo, ma anche il personaggio che interpreta, nella sua realtà storica non aveva certamente bisogno del soccorso estetico. Dunque, di che dovrei consolarmi? Il punto è un altro, ed è per quello che non volevo andare a vedere ’sto film, Mio fratello è figlio unico, tratto dal libro Il fasciocomunista scritto da mio fratello Antonio, dove io sono Manrico, interpretato appunto da Riccardo Scamarcio.
Il punto è che già nel libro, mio fratello non mi fa fare una gran bella figura. Il fatto poi di farmi morire ammazzato dai carabinieri è una cosa che lo diverte ancora, ci si fa delle gran risate come avesse realizzato chissà quale gioiosa vendetta, ma riconoscerete anche voi che non è la miglior fine augurabile, specie a se stessi. Poteva farsi sparar lui, ne avrebbe guadagnato l’opera raccontandola dall’aldilà come William Holden in Viale del tramonto. Devo dargli atto che per il resto, quanto ha scritto di me è più o meno veritiero: quel che ha costruito di suo, oltre alla mia fine violenta e prematura, sono il tono, i colori e gli umori della nostra vicenda, che risultano caricati, esagerati, forti anche quando le storie s’erano invece dipanate lievi. Ma forse lui le ha vissute così...
Capirete che il trarre un film da un tal libro, dovesse impensierirmi. Se già Antoniaccio - così gli urlava nostra madre quando ne combinava di grosse, e per questo nel libro s’è ribattezzato Accio - era andato giù come un maglio con me e con l’intera famiglia, figurarsi il carico da undici che potevano aggiungere autori e attori del film, alle prese con una storia che tutto sommato non gli tocca l’anima né la pelle. Un film che «interpreta» un libro, che a sua volta «interpreta» la realtà, rischia tre livelli di stravolgimento micidiali. Segnali non ne mancavano. Già mio fratello, con l’andar dichiarando «stanno tradendo il mio libro», lasciava sospettare che con la cessione dei diritti cinematografici si fosse meritato quell’ostracismo da sorelle e fratelli evitato fortunosamente col libro. Debbo confessare di aver meditato una diffida giudiziaria, perché a Latina mi conoscono ancora e costoro stavano girando proprio nella mia città: figli e figlie di parenti e amici andavano alle selezioni per far le comparse, me lo raccontavano con gran divertimento e altrettanto mio grande imbarazzo. Da quando era uscito il libro, avevo diradato i miei ritorni a Latina. Da che se ne preparava il film, ho smesso del tutto. Anche se per la diffida ho lasciato perdere, l’etica del mio mestiere non me l’avrebbe perdonata.
Però non ditemi che non ci fossero ragioni di preoccupazione. Con Scamarcio che nelle interviste dichiarava di interpretare «un giovane comunista un po’ cialtrone»... Passi per il cialtrone, ma comunista no, non lo sono mai stato. Io ero iscritto alla Fgs, la giovanile socialista, ed ero anarchico, nel ’68 movimentista e poi gruppettaro, ma mai iscritto al Pci, almeno in questo il Fasciocomunista è sincero. La vera comunista era nostra sorella Laura, la Violetta del libro e del film, che è diventata deputata e sottosegretaria con Prodi e con D’Alema. Il regista poi, Daniele Luchetti, che spiegava di voler trarre un film da «una storia sottoproletaria». Che ci sia di lumpenproletariat nella storia di una famiglia dove lavorava soltanto il padre operaio, ma i genitori son riusciti a far studiare tutti e sette i figli, me lo deve spiegare qualcuno. E l’immancabile condimento di spocchia e sufficienza con cui si parla di Latina e dell’Agro pontino, che noi nati lì, di destra e di sinistra, digeriamo come frutto di superficialità e conformismo. Leggere infine che «ho conosciuto moltissimi fascisti simpatici», fa il paio con quei candidi che confessano: «Ma io conosco tanti negri che non puzzano».
Capite adesso, perché non avevo alcuna intenzione di sorbirmi anche Mio fratello è figlio unico? Ma ci si è messo il mio direttore, ha insistito e m’ha blandito, «ci vai in orario di lavoro, ti rimborso anche i pop corn». Così ieri sono andato al cinema, preparandomi al mal di fegato o alla meglio a due ore di noia. Ed ora son qui, a guadagnarmi i pop corn.
Confesso, il film non è niente male. È ben costruito, gli attori son bravi, i due che interpretano mio fratello ancor di più. Elio Germano è bravissimo, mio fratello era proprio così, spiccicato: sempre polemico, litigioso e rompiscatole. Ciò detto, potrei cavarmela spiegando che però quel Manrico non sono io, e quella non è la mia storia. Perché nel film i sette fratelli son diventati tre, forse per risparmiare sui coprotagonisti. Perché io non ho fatto le magistrali ma il classico, non sono andato a lavorare in fabbrica, e nel ’68 ero all’università. Perché non mi son mai comprato una macchina e avevo invece una motocicletta. Perché molti episodi e situazioni non li avevo trovati nemmeno nel libro. E perché infine, scusate se insisto, io sono ancora vivo e lotto insieme a noi. Anche se alla fine, quando si scatena la sparatoria dove Manrico muore, ho avvertito un fastidioso prurito alla schiena.
Ma sarei insincero, se non ammettessi che mi sono riconosciuto nel rapporto tra i due fratelli. Ad Antoniaccio ho sempre voluto più bene che agli altri, pur se era lui in realtà a sfidarmi «mo’ te meno, mo’ te meno» finché non siamo andati ai giardinetti e l’ho messo a terra. Ed ho avuto un brivido, vedendomi abbracciarlo e dirgli: «Ma non te so’ bastate?». Ho riconosciuto quei sandali e i pantaloni corti che noi figli di operai dovevamo passarci dal più grande ai più piccoli. Ho colto qualche sprazzo di luce abbagliante della mia città, ho riscoperto i pini e il frinir delle cicale. Mi sono divertito, il film ha struttura e nerbo vivace, non è rimasto ancorato come un peso morto al libro. La scena di Accio che salta e s’agita sul letto della latitanza, è una scarica di vitalità e poesia. Anche il concerto di Beethoven «degermanizzato» è creazione geniale, che surroga bene all’episodio che ha «defascistizzato» mio fratello, forse complicato da realizzare cinematograficamente. Ma in sostanza, ho ritrovato nel film lo spirito del libro di mio fratello, e ancor più lo spirito di quegli anni.
In definitiva, ho visto la storia di due fratelli a cavallo del ’68, e in questa mi sono riconosciuto. Mi domandano tutti se ero davvero così, un po’ figlio di puttana.

Non saprei. Posso però dire che mio fratello era proprio così. Laura no, quella del film è un miscuglio delle due sorelle più piccole. Ma tornando a me, se Scamarcio dice che ero un po’ cialtrone...
Gianni Pennacchi

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