Il nemico delle ideologie che rese più cattiva la commedia all’italiana

Il primo a non andarci sarebbe stato lui. Un’anteprima alla Casa del Cinema, con immancabile pletora di tromboni in ordine sparso, a Pietro Germi non sarebbe piaciuta. Avrebbe girato le spalle con un sorriso beffardo dei suoi, senza nemmeno prendersi la briga di staccare il sigaro dalle labbra. Celebrazioni e salamelecchi erano roba da fargli venire l’orticaria. Per tacere di quel volergli affibbiare ad ogni costo un’etichetta politica. A lui che detestava gli schieramenti precostituiti. Infatti quelli di destra dicevano che era dell’altra sponda (ideologica) e quelli di sinistra gli davano del fascista. Chissà che risate, tra i molti bocconi amari, si sarà fatto, prima quaggiù e poi lassù.
Comunque sia, anche se il destinatario avrebbe sicuramente da ridire, com’era sua leggendaria abitudine, è un omaggio doveroso quello che la Roma cinematografica rende a Germi, a trentacinque anni dalla morte. È un documentario, autore Claudio Bondì, ottantacinque minuti nella versione integrale e una spremuta di ventidue nell’anteprima di oggi. Ah già, il titolo: Pietro Germi: il bravo, il bello, il cattivo. Dei tre aggettivi, i primi due gli calzavano a pennello, ma lui, un po’ per spirito di contraddizione e un po’ per pudore, avrebbe scelto solo il terzo. Filmati di repertorio, spezzoni di film, provini inediti, testimonianze varie (dai parenti stretti ai suoi attori preferiti, come la Sandrelli, Buzzanca, la Lisi e la Cardinale, da colleghi come Avati e Lizzani ai collaboratori superstiti) ecco l’ossatura di un’opera che i produttori associati, Blue Film, Ascent Film, La7, con il contributo della Regione Lazio, sperano di far debuttare in un grande festival. Bondì, che pensa di finire entro aprile la stesura definitiva del documentario, sogna addirittura Cannes: «Sarebbe bello, anche perché quest’anno proprio lì verrà presentata la versione restaurata di Signore & signori, vincitore della Palma d’oro nel ’65».
Ma chi era questo Germi, volutamente ignorato da troppi in vita e pressoché sconosciuto al pubblico più recente? Era uno che ha fatto dei gran bei film, potrebbe esserci scritto sulla sua lapide, complimento non utilizzabile a largo spettro a Cinecittà e dintorni. «Era un uomo molto timido - spiega Bondì -. Non rilasciava interviste e parlava pochissimo di sé, in una stagione in cui il cinema era molto mondano, un po’ come oggi lo è la tv. Allora attori e film avevano lo stesso spazio di quello che oggi si dà al Grande Fratello». Essere accostato, anche se di striscio, a un reality, che affronto per Germi, che certe boiate non le avrebbe guardate neanche dietro prescrizione medica.
Strano ma vero, nella scarna filmografia di un nordista come Germi, figura spesso, sorprendentemente spesso, la Sicilia. La prima volta nel ’49, era il suo terzo film dopo due polizieschi così e così (Il testimone e Gioventù perduta), comunque due capolavori al cospetto della merce in giro oggi, In nome della legge, con il coraggioso, donchisciottesco pretore Massimo Girotti, convinto di vincere da solo la mafia ma costretto a fare presto le valigie, sopraffatto da omertà globale e connivenze altolocate. E poi molti anni dopo Divorzio all’italiana (Oscar alla sceneggiatura originale e nomination per la regia nel 1961) e Sedotta e abbandonata (1963), due formidabili sberloni a una delle più indistruttibili usanze medioevali, il senso dell’onore, valido, anzi, molto apprezzato, in caso di corna. Purché, ovvio, la fedifraga sia lei, mica lui. Era un Germi al debutto con la commedia, salvo l’estemporanea parentesi de La presidentessa del ’52, con la Pampanini (nient’altro che il grigio trasferimento sullo schermo dell’omonima pièce teatrale francese). Perbacco, che esordio. Erano unghiate da cavare la pelle, anche se la gente al cinema si sganasciava con i tic di Marcello Mastroianni, impagabile barone Cefalù, e gli spettatori masculi si lucidavano gli occhi con le maliziose moine dell’acerba (almeno per età) Stefania Sandrelli.
Fino a quel Signore & signori, dove gli schiaffoni se li becca il Nord farisaico e bigotto, la cattolicissima Treviso nel nostro caso, tutti in chiesa la domenica e tutti a peccare (leggi amori proibiti) gli altri giorni. Fu anche un eccellente attore, scarno e asciutto come era lui nella vita, diretto da se stesso nei toccanti drammi social-familiari Il ferroviere (’56) e L’uomo di paglia (’58) e nel giallo Un maledetto imbroglio (1959), dove interpretava il taciturno commissario Ingravallo creato da Gadda. Germi, uno che è riuscito a far recitare Celentano (Serafino del 1968) e Morandi (Le castagne sono buone del 1970): basterebbe questa doppia, improba impresa a farne un grande regista. Amici miei fu una sua idea, ma morì, a sessant’anni nel ’74, senza poterla realizzare.

Una storia malinconica e crudele sull’amicizia e la vecchiaia, campione di risate e d’incassi, portata (benissimo) a termine da Mario Monicelli, classe 1915, ovvero solo di un anno più giovane. Difficile che sia presente oggi: ai duri non vanno a genio le commemorazioni.

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