Non solo tennis Così Lea ci racconta la sua Africa

TENNIS E MUTANDE Quando la compagna di doppio la stuzzicò sulla biancheria intima

«Easy to take off», facili da togliere, disse ironica negli spogliatoi la tennista inglese alla compagna di doppio. Erano i primi anni Cinquanta, le giocatrici di tennis indossavano dei vestitini scialbi oppure la maglietta con una gonnellina preferibilmente a pieghe, abbastanza lunghe da nascondere le mutande e l’albionica ironia era indirizzata alle culottes di pizzo di Lea Pericoli, che negli spogliatoi perdeva tempo anche per truccarsi... Non era ancora maggiorenne Lea (allora si era minorenni fino ai 21 anni), era bionda e bella, era di buona famiglia, aveva trascorso l’infanzia e l’adolescenza in Africa e conosceva le lingue... Così, l’inglesina si sentì rispondere in perfetto inglese: «Tranquilla, amica mia, ci vuole lo stesso tempo a levarsi un paio di brutte mutande come quelle che indossi tu!».
In questo aneddoto c’è tutta Lea Pericoli, ovvero un misto di eleganza e di anticonformismo, di orgoglio e di spregiudicatezza, di ordine e di anarchia. Oggi che siamo tutti diritti e niente doveri e nello sport, come nello spettacolo, i genitori sono spesso e volentieri i manager carnefici dei loro figli, fatichiamo a capire come potesse essere possibile che papà Pericoli, dopo lo «scandalo» delle mutandine di pizzo rosa indossate dalla diciottenne Lea a Wimbledon, non la facesse più partecipare ai tornei fino alla maggiore età... Su Il Giorno, Gianni Clerici, la firma più popolare del tennis di allora e di adesso, scrisse persino una «lettera aperta al signor Pericoli»: togliere Lea al tennis era un delitto, diceva. Aveva ragione, ma, a suo modo, papà Pericoli non aveva torto e del resto superato quello scoglio anagrafico e per i successivi vent’anni Lea fu la più grande tennista che l’Italia abbia mai avuto.
I lettori de Il Giornale conoscono bene la Pericoli come firma: è stata con noi dalla fondazione, ha scritto di sport e di moda. La sua autobiografia, «Questa bellissima vita», è stata finalista al Bancarella Sport; «C’era una volta il tennis», dove racconta quella di Nicola Pietrangeli, ha vinto il Premio Gianni Brera. Adesso è la volta di «Maldafrica» (Marsilio, 237 pagine, 18 Euro) e si tratta di un libro particolare, un «come eravamo familiare» di quell’Italia d’oltremare quando per un momento ci illudemmo di avere un impero e poi lo perdemmo rovinosamente. Gli «Insabbiati» vennero chiamati quegli italiani che nonostante la sconfitta e la fine di quel sogno, si ostinarono a restare in Africa e i genitori di Lea in fondo furono fra questi, prima l’Etiopia, poi l’Eritrea e poi la Somalia...
«Maldafrica» racconta proprio questo, un amore che è poi una malattia, un’infanzia e un’adolescenza trascorse in mezzo alla natura, le suore italiane della scuola Ambagalliano all’Asmara, il Liceo inglese di Nairobi, i primi dolori e rossori sentimentali. Racconta anche il tennis, naturalmente, che fu da subito la grande passione della bambina Lea: in collegio, dopo avere vinto una partita, si teneva la racchetta sotto al cuscino per coccolarla, «un tributo ingenuo con il quale intendevo ricompensarla della magia compiuta».
In amarico, scrive Lea Pericoli, «c’è una parola, "Esh Nagà!" che vuol dire "va bene anche domani". È un’affermazione fantastica perché in Africa nulla è mai abbastanza importante e tutto può essere sempre rinviato.

Laggiù la vita ha dimensioni diverse dalla nostra. Il tempo Dio lo regala e d’altronde vivere di corsa è roba da poveracci». Correva sulla terra rossa Lea, ma la vita non ha ancora smesso di assaporarla con lentezza. Esh Nagà!

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