Nucleare, l’Iran rifiuta la mano tesa di Bush

Gli ayatollah: «La cessazione del programma non è in agenda»

Gian Micalessin

La stretta di mano è ancora lontana, ma il ghiaccio è rotto. Per la prima volta nei 27 anni di guerra fredda iniziata con l’assalto all’ambasciata di Teheran e la presa in ostaggio dei suoi diplomatici, l’America è pronta ad affrontare un negoziato con l’Iran. Per confermarlo indirettamente - dopo l’annuncio ufficiale del segretario di Stato Condoleezza Rice - scende in campo un George W. Bush deciso più che mai ad affidarsi a trattative per risolvere la questione nucleare iraniana. Ma se Washington apre la porta ai negoziati diretti con l'Iran («A patto che cessi l’arricchimento dell’uranio»), Teheran, almeno per il momento, la richiude. Così, mentre il direttore dell'Aiea Mohamed El Baradei ha invitato l'amministrazione iraniana ad accettare l'apertura americana, Teheran ha risposto attraverso l’agenzia Irna: «È solo una iniziativa di propaganda. La sospensione del nostro programma non è in agenda e gli Usa lo sanno». Una risposta che comunque non scoraggia Bush: «Questo argomento va risolto diplomaticamente e la mia decisione oggi è di far assumere agli Stati Uniti una posizione guida per la sua soluzione».
Certo l’inedita disponibilità dipende da una condizione che al momento sembra impossibile. Gli Americani per sedersi di fronte all’Iran assieme a Germania, Francia e Regno Unito, i tre «grandi europei» che finora hanno gestito la trattativa sul nucleare, pretendono la sospensione di tutte le operazioni di arricchimento dell’uranio. Esigono da Teheran la fine di quella corsa all’arricchimento, simbolo dell’orgoglio nazionale e della capacità iraniana di contrapporsi al mondo. «Il nostro messaggio agli iraniani è innanzitutto di non volere l’arma, in secondo luogo di sospendere in maniera verificabile ogni programma perché solo a quel punto ci siederemo al tavolo per cercare una soluzione», ha spiegato Bush confermando la linea di fondo secondo cui il primo passo spetta a Teheran.
Malgrado questo nodo gordiano l’apertura resta di portata storica. Washington non offre più un negoziato parziale e limitato, come quello sull’Irak di cui si sussurrava qualche mese fa, ma una complessa e delicata trattativa sul nucleare, inevitabilmente connessa alla sicurezza globale. L’annuncio, pronto da giorni, viene distillato con certosina precisione dalla Rice alla vigilia della sua partenza per Vienna dove – nell’incontro odierno con gli altri rappresentanti del Consiglio di Sicurezza allargato alla Germania - si darà il via libera alle agevolazioni messe a punto dall’Ue per ottenere il ravvedimento di Teheran e a eventuali misure punitive.
Ma in una partita diplomatica delicatissima, più della sostanza delle parole conta la forma. Più importante dell’annuncio del segretario di Stato è l’atto formale e ufficiale con cui la decisione viene ratificata all’ambasciata di quella Confederazione Elvetica che - dal 1979 - fa da ponte diplomatico, a Washington come a Teheran, tra il Grande Satana e la «nazione canaglia». L’altro aspetto significativo dell’annuncio è la sua tempistica. La disponibilità degli Stati Uniti ad abbattere la «cortina di ferro» che la separa da Teheran ha un doppia finalità. Può puntare ad aprire una nuova era di negoziati e in teoria a ristabilire relazioni diplomatiche, ma può anche servire ad infliggere quella punizione che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu s’è rifiutato fin qui d’erogare.
Le scorse settimane sono state teatro di una sommessa e discreta trattativa con Cina e Russia per convincere i due grandi protettori di Teheran ad accettare l’eventualità di sanzioni. Stando a quel che s’è capito, i negoziatori americani hanno strappato il sì di Mosca offrendo due condizioni. La prima è appunto la partecipazione diretta ai negoziati con Teheran. La seconda è la graduale applicazione di quell’articolo 7 dell’Onu che prevede, in caso d’inadempienza, anche l’uso della forza.

Se i negoziati diretti non porteranno a nulla, gli americani potranno dunque pretendere da Russia e Cina il voto di sanzioni, ma dovranno affidarsi a risoluzioni successive nel caso vogliano la benedizione dell’Onu per eventuali raid o attacchi alla Repubblica islamica. Che, per il momento, sembra voler continuare ad andare per la sua strada.

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