Nuda in calze e guêpière

Ai tempi era più popolare della coetanea Marilyn. Basterebbe chiederlo a un veterano della guerra di Corea. Le sue foto mulinavano tra le brande dei soldati al fronte: forse solo le immagini di Miss Gambe, ossia Betty Grable, sono state più consumate dalle avide dita dei marmittoni al fronte. Se ne è andata in un ospedale di Los Angeles, in silenzio, come del resto aveva vissuto l’ultimo mezzo secolo dei suoi lunghi 85 anni, Bettie Page, la pioniera delle pin up, come dire la prima ragazza-calendario del cinema. Già, il cinema. Definirla un’attrice è esagerato: la sua filmografia infatti è più ridotta dei costumini che ne hanno fatto il simbolo della sensualità tra gli anni Quaranta e Cinquanta.
A riguardarle oggi, quelle sue foto, più maliziose che provocanti, fanno un po’ sorridere. Le curve in bella vista, fasciate da una biancheria intima allora scandalosa; le gambe fin troppo tornite, valorizzate dalle autoreggenti, chissà se si chiamavano già così; il sorriso ammiccante sul viso sbarazzino che culminava nella celebre frangetta. Gliel’aveva consigliata agli inizi della carriera uno dei tanti uomini che le ronzavano intorno: in effetti fu un eccellente rimedio per nascondere la fronte sporgente. L’unica parte del suo splendido corpo, non proprio da watussa, che Bettie soleva tenere pudicamente coperta.
La sua più famosa tenuta da battaglia era composta da guêpière e frustino. Un abbigliamento che fece inorridire mamma Edna, puritana signora del profondo Tennessee, che il 22 aprile 1923 aveva messo al mondo Bettie Mae, lesta a precedere altri cinque marmocchi, col contributo del meccanico sporcaccione Walter Roy Page, accanito cultore della pedofilia casalinga. Anche per fuggire da quell’inferno, la neodiplomata Bettie diventò maestrina, ma il suo straripante sex appeal la mise in difficoltà con gli allievi più intraprendenti, tanto da costringerla presto all’abbandono.
Imparò però in fretta a difendersi dagli uomini, compresi i tre mariti, se è vero che dopo un provino dovette reggere il confronto con cinque maschi assatanati, decisi, per così dire, a conquistarla. La paura aguzza l’ingegno, e la fanciulla, per uscire dai guai nel modo più indolore, se la cavò col metodo Lewinsky. Da non confondere col metodo Stanislavskij, che laureò svariate generazioni di divi. Bettie che diva non fu mai, anche se le superò tutte in popolarità, finì di lì a poco nel catalogo di un fotografo dilettante, tale Irwin Klaw, che nel suo piccolo aveva scoperto l’America, vendendo le istantanee, pochissimo castigate, di una scuderia formata da puledre a due gambe, alcune, come Rita Hayworth, destinate all’Olimpo. Una foto tira l’altra, e l’ormai trentaduenne Bettie Page, che aveva girato gli States come modella e filmini del tutto trascurabili, finì sul paginone di Playboy. Era il numero di dicembre del 1955, occasione d’oro per indossare il berretto rosso di Babbo Natale. E null’altro. Era la consacrazione, di un corpo e di un mito.
Ebbe ancora due anni di altissimo gradimento: interviste sui giornali che contano, apparizioni in show di successo, servizi fotografici sempre meno spinti. Quasi una premonizione dell’improvviso declino.

Dovuto, si vociferò, all’ondata di maccartismo che travolse i personaggi sospettati di filocomunismo. Categoria nella quale è arduo inserire una donna che di politica non si occupò mai. Ma che fece di tutto per regalare un briciolo di felicità al genere che più amò. Quello maschile.

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