Le presidenziali francesi sono anche una competizione interna al gollismo. Non ci si fermi alle dichiarazioni ufficiali: l'appoggio di Chirac a Sarkò, così come le professioni di continuità da parte di quest'ultimo, sono poco più di slogan da campagna elettorale. La verità è un'altra.
Chirac, per convinzione personale e per il suffragio plebiscitario ricevuto contro Le Pen, nell'ultimo quinquennio ha molto accentuato la vocazione del gollismo a rappresentare l'intera nazione, oltre la frattura tra destra e sinistra. Lo ha fatto, in particolare, su due terreni: la concezione della laicità e la politica estera. Per quanto possa apparire strano, i due campi sono collegati. Infatti, nell'ambito del rapporto tra Stato e religione egli ha resuscitato un'antica concezione della laicità, che affonda le radici nella III Repubblica. Questa presuppone l'ambizione dello Stato a incarnare una propria religione civile distinta e distante dalle religioni rivelate che, per questo, devono essere escluse dalla vita pubblica e confinate nell'esclusivo ambito della coscienza individuale. Il «rapporto Stasi» e il correlato divieto a ostentare simboli religiosi derivano in linea diretta da questa concezione, così come la più generale linea «assimilazionista» verso l'immigrazione. Questa esasperazione illuminista ha portato Chirac, e il suo fido scudiero De Villepin, a relativizzare la crisi dell'Occidente, sia nei suoi tratti interni sia nei suoi aspetti di politica estera. Da qui un anti-americanismo pregiudiziale e ostentato, posto in atto non soltanto in occasione della guerra con l'Irak. Da qui anche l'accentuazione del rapporto con la Germania di Schröder e l'assunzione di un europeismo estraneo alla tradizione della nazione gollista.
Quest'ultimo tratto, complice il fallimento del referendum sul Trattato, è stato solo il sintomo più evidente della rottura con la tradizione gollista. Nessuno può dubitare, infatti, che il Generale De Gaulle fosse un fiero nazionalista e, per questo, insofferente nei confronti di ogni manifestazione d'egemonia americana, nel campo della cultura così come nel campo della politica estera. Tale atteggiamento, però, era assunto in nome del ruolo che la Francia eterna - che nella sua visione oltrepassava persino la cesura della Rivoluzione del 1789 - avrebbe avuto titolo a rivendicare nella storia millenaria di una civiltà. La Francia di de Gaulle, insomma, era quella delle grandi cattedrali di Chartres e di Notre Dame. Quella del «cubo» della Défense, invece, si addice assai più ai socialisti e a Chirac. Per questo, il Generale si fece interprete di una nuova concezione della laicità nella quale non vi era più spazio per l'anticlericalismo d'inizio secolo. Per questo, nonostante la sua manifesta ostilità verso l'America, ogni qual volta il conflitto di potenza assunse una dimensione ultimativa, de Gaulle schierò la Francia al fianco degli Stati Uniti come suo più fedele alleato. Successe in occasione della crisi di Berlino e, di nuovo, al tempo dei missili di Cuba.
Sarkò intende riportare il gollismo in questo solco. La sua concezione della laicità, infatti, riammette le religioni all'interno della vita pubblica. E, per quanto concerne la politica estera, pur non rinunziando alla fierezza nazionale, egli non ritiene peccato mortale farsi fotografare accanto al presidente Bush. D'altro canto, è significativo che nell'indicare il suo piccolo «Pantheon», al nome di De Gaulle Sarkò abbia associato quello di Giovanni Paolo II.
Tutto ciò ci fa capire perché egli, dopo Aznar e Berlusconi, si profila all'orizzonte come la nuova bestia nera degli eurocrati di Bruxelles. Se Sarkozy dovesse vincere, infatti, l'idea d'Europa intesa come potenza civile da contrapporre allo strapotere militare statunitense risulterebbe indebolita. E, di conseguenza, la stessa concezione dell'asse franco-tedesco muterebbe di significato.
Gaetano Quagliariello
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