Il nuovo Phil Collins spiazza tutti con la musica nera

Il nuovo Phil Collins spiazza tutti con la musica nera

nostro inviato a Montreux

Poi se ne è tornato a casa, giusto a qualche chilometro da qui, Ginevra. Tranquillo come una pasqua. Phil Collins l’altra sera ha aperto il Montreux Jazz Festival, uno dei più importanti del mondo, srotolando un concerto con il miglior decalogo del soul che si sia ascoltato da un bel po’. E in effetti il pubblico, decisamente compito se non altro perché formato per lo più da ultraquarantenni, non si è risparmiato e ha apprezzato a modo suo, ossia alla svizzera: seguendo le canzoni con concentrazione così rispettosa che a un concerto rock in Italia te la scordi. Lui, che è invecchiato nonostante non abbia ancora compiuto i sessant’anni, ha detto papale papale di aver scelto i brani «che sono la colonna sonora della mia vita», decidendo quindi di accomunarsi a milioni di altre persone. D’altronde, dai Sessanta fino a oggi, roba tipo Papa was a rolling stone o Uptight o Going to a gogo ha accompagnato le giornate di tre o quattro generazioni, specialmente negli Stati Uniti e solo dopo, come sempre succede, qui da noi.
È il soul, signori, quella lingua morbida e avvolgente che mescola il vocabolario del rhythm’n’blues con quello del gospel per poi declinarlo con l’essenzialità del pop. L’hanno inventato i neri d’America e a fine anni Cinquanta l’ha sublimato Berry Gordy, un geniaccio di Detroit che con la sua etichetta Motown in due decenni ha scoperto gente come The Supremes, Marvin Gaye, Martha and The Vandellas e pure i Jackson5. Certo, forse è strano pensare che Phil Collins, un batterista cantante che nei Genesis era l’ossimoro del soul, tanto tecnici ed eterei gli uni quanto carnale ed eccitante l’altro, proprio adesso decida di passare in rassegna così fedelmente questi capolavori. E ne è talmente convinto che a settembre pubblica con la Warner il cd Going back che raccoglie anche molti dei brani ascoltati sul palco dell’Auditorium Stravinski. «Il disco è pronto» ha annunciato lui, vestito come un travet - abito nero stazzonato, cravatta cremisi, occhialini e barbetta di tre giorni - ma clamorosamente ispirato neanche fosse a inizi carriera. Invece è qui da quarant’anni, ha venduto duecentocinquanta milioni di dischi, vinto otto Grammy, un Oscar e un Golden Globe. Intanto è accompagnato da diciotto signori musicisti (tra i quali lo strepitoso batterista Chester Thompson), sei coristi e soprattutto tre componenti dei Funk Brothers, artisti di lunghissimo corso che un libro di Allan Slutsky definisce così: «Musicisti che hanno suonato in più successi di quelli di Beatles, Elvis, Rolling Stones e Beach Boys messi insieme». Perciò ovvio che una miscela così abbia benedetto un concerto insuperabile e pazienza se qualche volta, come in Papa was a rolling stone, la voce di Phil Collins non fosse nel suo registro ideale e a tratti faticasse un po’. Contava, eccome quanto, l’intensità della musica e la profondità degli accordi come quando in Going to a gogo la combinazione perfetta di fiati, batteria e cori ha scatenato un applauso che nemmeno questo pubblico è riuscito a trattenere. Insomma Phil Collins, dopo aver seguito la transumanza rock degli anni Settanta, aver venduto palate di dischi negli Ottanta e nei Novanta, è tornato laddove è partito, nella culla della musica nera. Da lì, nell’Auditorium tutto esaurito, ha scelto Blame it on the sun che Stevie Wonder canta dal 1972 poi Loving you is sweeter than ever, Tears of a clown, (Love is like a) Heat wave e via così per un’ora e mezzo filata. Lui, che è nonno ma deve crescere i suoi figli più piccoli, è diventato celebre come batterista ma adesso non la suona più perché le vertebre glielo impediscono, ha annunciato il ritiro dalle scene e difatti oltre a quello di Montreux ha fatto pochi altri concerti prima di «smetterla per davvero».
Però che concerto.


E quando a sorpresa, giusto due minuti dopo la fine dello show, è spuntato sul palco Quincy Jones ossia il padre di tutti i produttori, il deus ex machina di Thriller di Michael Jackson, un gigante che ha vinto 27 Grammy, nessuno si è stupito quando ha detto nel suo inconfondibile microfono d’oro: «Altro che Gran Bretagna, Phil Collins sembra nato a sud di Chicago», ossia dove è sbocciata quella musica tanto intensa che spiega la vita a cuore aperto, sempre.

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