Obiettivo sul Novecento Luci e ombre d’un secolo negli scatti di «Life»

Obiettivo sul Novecento Luci e ombre d’un secolo negli scatti di «Life»

Barbara Silbe

da Milano

Guerre senza sangue, tragedie senza lacrime. Era questa la legge non scritta di Life. Era il Novecento in punta di piedi, con le sue efferatezze e le glorie appena accennate, per lasciare più posto alla fantasia. Gli autori che hanno lavorato per la celebre rivista americana erano pionieri del fotogiornalismo, riprendevano il mondo come fosse un palcoscenico, prestando attenzione alle persone, a ogni commediante, e agli spettatori. Facevano da tramite tra l’attualità e la gente, ancora pura, ancora capace di sorprendersi. Il meglio della loro produzione è ora raccolto in una mostra dal titolo «Life. I grandi fotografi»: 150 scatti memorabili, raccolti al milanese Spazio Forma, Centro Internazionale di Fotografia da oggi al 3 settembre, racconteranno la nascita, l’evoluzione e il consolidarsi di quella visione del mondo stile Life ancora oggi cristallizzata sotto un velo di nostalgia.
Erano altri tempi. Erano tempi di olocausti e sconvolgenti rivoluzioni sociali, erano le minigonne e il drive-in che ammaliava i giovani americani, era la guerra del Vietnam e la saga dei Kennedy, i Beatles o la costruzione dei primi grattacieli di New York. Questi professionisti si spingevano in prima linea, già allora. Con una sorta di puntiglioso impegno che oggi non esiste più, per la troppa competizione.
Dello staff di Life fecero parte alcuni dei più autorevoli maestri dell’obiettivo, 99 in tutto. «Vedere la vita, vedere il mondo»; questo il loro motto. Robert Capa era a Omaha Beach per raccontare lo sbarco in Normandia; Margaret Bourke-Withe, prima fotografa donna accreditata nella Seconda guerra mondiale, testimoniò la liberazione del campo di Buchenwald, in Germania, nel 1945; David Douglas Duncan spiegò al mondo il conflitto di Corea attraverso il pianto di un soldato; Ralph Morse ritrasse gli astronauti del Project Mercury e le loro famiglie, vivendoci a stretto contatto tanto da guadagnarsi il soprannome di «ottavo astronauta». Su entrambe le sponde dell’Atlantico le genti comuni del XX secolo godevano di ogni singolo fotogramma, come se la vita altrui, volti e gesti e sentimenti, diventasse di colpo parte della loro. La rivista trattava gli argomenti più disparati, l’unico intento era quello di scovare storie, di sondare ogni aspetto dell’uomo, di mostrare luoghi mai visti. Carlo Bavagnoli, unico reporter italiano a lavorare con loro, divenuto celebre per uno scatto a Jane Fonda nei panni di Barbarella, datato 1967, ricorda gli esordi di quel magazine leggendario. «Si propose come una rivista di immagini, per contrastare lo stile di Time, considerato l’élite del giornalismo un po’ snob uscito da Harvard, ma fatto anche di tante parole e pomposità». I concetti invecchiano, le fotografie si trasformano in icone senza tempo, restando impresse nella memoria per sempre. «Con quel modo di lavorare - prosegue Bavagnoli - noi fotografi eravamo protagonisti. Io mi ritengo molto fortunato, quell’esperienza mi ha anche permesso di tirare fuori tutta la mia umanità. È molto facile fare retorica con immagini di miseria, e alla fine ci si abitua anche a quelle. Per noi non c’era mai niente di programmato, niente di preciso, tranne che per gli eventi che erano troppo importanti per venire ignorati. Tutto il resto era improvvisazione, istinto, era senza limiti nella scelta dei soggetti, dei confini e dei racconti, pur con grande responsabilità. Ci si affidava al rispetto del prossimo, all’exploit visivo, alla nostra genialità e al coraggio, allo sguardo posato sui fatti e sulle cose».
Il catalogo, una corposa antologia per immagini che abbraccia tutto il Novecento, è edito da Contrasto.

Da domani al 21 maggio alla retrospettiva sarà affiancata una seconda mostra dal titolo «Used in Life Magazine», selezione di stampe vintage di Life effettivamente usate per la pubblicazione dagli anni Trenta agli anni Cinquanta. Un’altra storia, quella di una vita fa.

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