Occhetto, compleanno senza sorrisi l’uomo della svolta dimenticato dai Ds

L’ex segretario che liquidò il Pci tra le lacrime festeggia i 70 anni. Dopo i duelli con D’Alema, ora scrive libri tra letteratura e politica

Occhetto, compleanno senza sorrisi l’uomo della svolta dimenticato dai Ds

Luca Telese

da Roma

«Ondivago», gli dicevano come fosse un insulto; e ondivago lo è, senza dubbio, basterebbero, a dimostrarlo, questi settant’anni vissuti pericolosamente, disegnando un itinerario anomalo e irregolare nella storia della sinistra italiana. Lui stesso, quando deve raccontarsi, usa metafore avventurose o esotiche: «Il nostro percorso - dice - non può che essere la carovana». Il problema è un altro: posto che Achille Occhetto è un ondivago, è tutto da dimostrare che (di questi tempi) sia un difetto, e che i suoi grandi avversari a partire dal «deputato di Gallipoli» (definizione sua) o dall’ultimo esangue erede, Piero Fassino, lo siano meno di lui. Anzi, nel giorno dei settant’anni di Occhetto, pensi che queste settanta candeline interessano un po’ tutti perché l’ondivaghezza (interpretata con più o meno nobiltà) è l’unico vero Dna riconoscibile della sinistra italiana postcomunista, letiziata e condannata proprio dal suo essere «post».
Di certo nessun detrattore di Occhetto potrà mai dire che i mille colpi di scena della sua vita siano stati vissuti all’insegna dell’utilitarismo: al punto che Occhetto è forse l’unico «padre fondatore» delle sinistre mondiali che si sia ritrovato senza famiglia, in qualche modo espulso dagli eredi che ha beneficiato di un traghettamento e di una ricca eredità, ma che non l’hanno gratificato della riconoscenza dovuta ai patriarchi. Persino il suo grande rivale di sempre, il fratello-coltello Massimo D’Alema ha più volte detto: «Senza il coraggio di Achille la Svolta non si sarebbe mai fatta». Ed è ovvio che basta questo riconoscimento (peraltro l’unico, in un rapporto oggi segnato dal reciproco, laico, disprezzo politico) a precipitare chiunque abbia memoria nell’«indimenticabile millenovecentottantanove» (definizione è dello stesso Occhetto) il teatro della memoria. Una sequenza di colpi di scena che terremotava con due rotture, in un mese, la storia di un partito che in cinquant’anni si era mosso all’insegna dell’ossimoro: attesa della Rivoluzione che non arriva, contro la progressività riformista del giorno per giorno.
Occhetto, dopo la sua elezione dell’88 e soprattutto in quel terribile ’89 entra come un elefante nella cristalleria del comunismo italiano: definisce Togliatti «inevitabilmente corresponsabile», bacia la moglie Aureliana (all’epoca grande scandalo, oggi una pudica cosa), abbatte «la falce il martello e la stella d’Italia che nessuno potrà mai scuotere» (Palmiro Togliatti) piange, addirittura, per il riconoscimento umano di Pietro Ingrao, dopo un congresso diviso da mozioni feroci.
Se ne andò da Botteghe Oscure sbattendo la porta dopo un risultato (Europee 1994, 19%) su cui i suoi eredi oggi metterebbero la firma. E poi iniziò a sorprenderci: un libro che rompeva ogni liturgia (Il sentimento e la ragione, Rizzoli) e scalava le classifiche (100mila copie) partendo dalla contemplazione estatica della borragine e mettendo in piazza le rogne interne dell’allora Pds, le passioni ed anche gli odi di un gruppo dirigente. E poi un altro libro bellissimo (Secondo me, Piemme), autobiografia senza veli che svelava la carta di identità più eclettica che un leader avesse mai avuto: il giovane Achille era nato coccolato tra Torino azionista e l’Azione Cattolica, l’esempio di «Ciccino» (così lui chiamava Felice) Balbo, le lezioni private di Cesare Pavese (amico del padre Adolfo) che gli correggeva le versioni, e gli faceva da maestro. E poi i tre matrimoni, una moglie attrice (bellissima, di colore) un figlio chiamato Malcolm (come Malcolm X) l’eresia del dissenso sfiorato nel ’56, l’ingraismo ribelle, il berlinguerismo maturo, il rodanismo del «Nuovo Inizio», la resistenza incredibile del suo «nuovo Pci» (27.6%)dopo il terremoto Tien An Men; la prima Bolognina contro l’identità e il dogmatismo, la seconda contro Tangentopoli e gli apparati, poi il patatrac, col partito che alla fine lo sputa e lo espelle.
Non è senza sofferenza, per lui: vive la stagione del «rancore», e i giornalisti fanno a gara per strappargli la battuta scarlatta contro D’Alema. Poi si sottrae al gioco al massacro: i capelli si fanno grigi (ma sta meglio) gli cresce un pizzo coreografico («Un po’ risorgimentale», scherza), si avvicina a Rifondazione prima, ai Verdi poi, crea un’altra metafora di provvisorietà, il «Cantiere», diventa il bel signore un po’ agé che appare sulla copertina del suo ultimo libro Potere e antipotere (Fazi, 13.00 euro), prefazione (scusate se è poco) di Gore Vidal. Di nuovo un libro in cifra, tutto da leggere: apparentemente un manuale postmachiavellico, poi un nuovo almanacco di belle letture, un repertorio di invenzioni letterarie (che dire di un capitolo su Celestino V e Ignazio Silone?) e alla fine di tutto il suo chiodo fisso: l’ulivismo non deve essere la brutta copia della socialdemocrazia o del partito democratico, non può essere una resa, ma una nuova scommessa. Lui che ha liquidato il comunismo per primo, passa il resto della vita a spiegare che una sinistra senz’anima non può più vincere.

Forse la sua «carovana» non arriverà mai a destinazione. Ma chi tra Ds e Margherita non capisce che il coraggio folle ha di nuovo trovato la direzione giusta, si fermerà prima della meta. Sicuramente più lontano di lui.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica