GLI OMISSIS DI PAOLINO

L’appoggio elettorale del Corriere al centrosinistra - annunciato ieri da un editoriale del direttore Paolo Mieli - non è una sorpresa e nemmeno una novità. È una conferma. L'antiberlusconismo del maggior quotidiano italiano, da tempo evidente, è stato formalizzato e ufficializzato. Niente equidistanze, e nemmeno equivicinanze. Via Solferino è con Prodi: o piuttosto potremmo dire che Prodi è con via Solferino, perché Mieli sembra ormai rivestire, nel centrosinistra, un ruolo non dico di supremo timoniere, ma senza dubbio di sommo suggeritore. Una leadership debole cerca d’attingere vigore da questa sponsorizzazione giornalistica. Il Corriere si colloca così - in vista delle urne - sugli stessi spalti di Repubblica. Il Cavaliere sarà anche, come sostengono a gran voce i suoi avversari, un professionista del vittimismo, ma quando si dice assediato da una grande stampa ostile bisogna riconoscergli qualche ragione.
Il Corriere ha il diritto di prendere posizione. Nella sua lunga storia l’ha fatto più volte, tradizionalmente interpretando le idee e le aspirazioni d’una borghesia illuminata che si sentiva fortemente legata a valori morali, civici, patriottici. Così per l’intervento nella prima guerra mondiale, così per l’opposizione albertiniana al fascismo, così per la scelta di campo del 18 aprile 1948. Nelle decisioni fondamentali per i destini del Paese il Corriere non mancava all’appuntamento. Era possibile imputargli a volte miopie o sordità, ma non un difetto di coerenza. Quando parve che al suo interno vi fosse una deriva assembleare Montanelli se ne andò - con lui anch’io e tanti altri - per fondare il Giornale. Ma poi la barra di via Solferino tornò per qualche anno al centro.
Adesso non lo è più. Nell’imminenza d’una consultazione che è aspra e importante, ma che non ha riverberi epocali, Mieli ha ritenuto di dover rinunciare a una - seppur soltanto apparente - neutralità, e di dover intruppare il quotidiano a lui affidato in uno dei due schieramenti in lizza. Lo scontro vede divisa la società italiana, e sicuramente vede divisi anche i lettori del Corriere, ma sembra che questa considerazione sia stata ritenuta di minor conto. Mieli è senza esitazioni per la formazione prodiana. Era liberissimo di farlo, nulla da eccepire sulla legittimità del pronunciamento. Ho invece molto da eccepire sulle argomentazioni cui Mieli è ricorso per renderlo convincente.
Nell’esposizione di Mieli il centrosinistra assume le connotazioni d’un blocco tutto legge e ordine con soltanto qualche ragionevole e lodevole venatura progressista. Patenti di totale affidabilità sono elargite a Prodi, a Rutelli, a Fassino, a Pannella, a Boselli. Poi elogi a Fausto Bertinotti «che ha fatto approdare i suoi alle sponde della non violenza». Basta non menar le mani per essere adatti ad occupare una poltrona di ministro, o magari di presidente della Camera? Non una parola per Oliviero Diliberto che vede grondar sangue dalle mani di Bush e di Berlusconi, e che - come del resto Bertinotti - è in disaccordo con il capocordata Prodi su innumerevoli snodi essenziali d’una ipotetica futura guida dell’Italia. Non vorrei aver l’aria di ricalcare pedestremente motivi propagandistici di Berlusconi, ma quel termine comunista inserito nella ragione sociale di due partiti affiliati a Prodi qualche significato lo conserva.


Mieli scrive che Prodi gli pare un ideale presidente del Consiglio per il modo con il quale ha affrontato «le numerose contraddizioni interne al proprio schieramento». Proprio per il modo che piace a Mieli tanti moderati vedono nella coalizione di Prodi un pericolo, o un’incognita inquietante. Mieli è tranquillo, il popolo dei corrieristi non so.

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