Ora non lasciamo un geniaccio in esilio a Salemi

Solo per un ingenuo imbarcare Vittorio Sgarbi nel governo di Milano poteva essere operazione indolore, certamente non insapore essendo ben noto che si tratta del più geniale e competente divulgatore (nel senso più alto del termine) di arti figurative. Ma di Letizia Moratti tutto si può pensare tranne che sia un'ingenua: se ha preso in giunta un dannunziano-dadaista-casinista come Sgarbi avrà avuto le sue ragioni, presumibilmente legate agli equilibri e ai rapporti interni al Pdl. Questo, in realtà, è il rilievo più ragionevole che si può fare al licenziamento di Sgarbi: quelli grettamente formali, da cultura della carta bollata, sollevati dal Tar sono invece facilmente superabili. Quella sentenza, però, imponendo preavvisi, motivazioni e altri formalismi, costituisce un pericoloso precedente, apre la strada alla «impiegatizzazione» degli assessori. I quali, dopo la riforma che ha introdotto l'elezione diretta del sindaco, sono amministratori che agiscono su sua specifica ed esclusiva delega. Tanto che non possono essere consiglieri comunali, salvo dimettersi. Esclusione che produce molto malumore fra gli eletti, i quali si sentono ingiustamente «scavalcati», in termini di visibilità e potere, da chi non si è misurato con l'elettorato. Ma è proprio questa autonomia da dinamiche assembleari e partitiche che la riforma si proponeva di attuare. Perciò solo il rapporto di fiducia col sindaco permette all'assessore di stare al suo posto.

Detto questo, Sgarbi - che con le dimissioni ha risolto elegantemente e provocatoriamente la questione - resta una risorsa unica. Milano faccia perciò il possibile per utilizzarlo: come consulente per le grandi mostre, ad esempio. Per non lasciarlo al surreale esilio da sindaco di Salemi.

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