Ora Sofri è solo

Faceva una certa impressione, ieri, vedere l’uomo delle «piccole poste» invadere il Corriere della Sera con una grande posta, tanto smisurata quanto tortuosa e vagamente disperata. Una lettera in cui si celebra il paradosso di un condannato per omicidio che si eleva a maestro di morale sull’omicidio (lo stesso per cui è finito alla sbarra!), di un intellettuale che si dichiara innocente ma che giustifica i colpevoli, del sofista che si perde in un turbine di parole per spiegare che definire «terrorismo» l’omicidio Calabresi sarebbe un errore, o peggio ancora un’ingiustizia (ma verso chi?).
Fa impressione, perché bisogna prendere atto che in questa sua ultima battaglia contro la realtà, Adriano Sofri è oggi un uomo solo, o quasi. Di certo abbandonato (o ignorato) da quella generosa compagnia di amici, compagni, simpatizzanti che - a partire dalla confessione di Leonardo Marino, nel luglio del 1988 -, sotto la sigla del comitato Liberi Liberi («offerto» da Vasco Rossi), cantò la sua libertà e chiese la sua scarcerazione su tutte le piazze d’Italia. All’epoca, per difendere Sofri, si produssero un adesivo giallo e una coccardina stile campagna sociale, il logo era una vignetta di Sergio Staino, c’erano i libri di Elvira Sellerio, i dibattiti nelle librerie Feltrinelli, gli incontri con Oscar Luigi Scalfaro per chiedere la sua scarcerazione, i bollettini medici, le firme del più grande partito trasversale mai allestito in Italia: intellettuali, attori, politici, cantanti. E poi le raccolte fondi e gli appelli e le manifestazioni, da Carlo Feltrinelli a Francesco Guccini, da Giuliano Ferrara a Paolo Hendel a Toni Capuozzo, a Ernesto Olivero, alle lettere della splendida attrice francese Emanuelle Béart agli appelli dello scrittore spagnolo Manuel Vasquez Montalbàn. Il 16 febbraio 1997 per una manifestazione davanti al carcere di Pisa arrivarono in 10mila da tutta Italia, e cori, e slogan, e palloncini gialli, persino la notizia di una apparizione di Adriano Celentano, che sentiva aria di santoneggiamento, e che alla fine telefonò in diretta per dire che «Adriano è con Adriano».
All’epoca Sofri divenne, in pochi mesi, l’ultimo innocente da infilare nell’archetipo antico della battaglia innocentista di sinistra: come Sacco e Vanzetti, come i coniugi Rosenberg, come Valpreda. Ma anche come alcuni brigatisti degli anni ’70, tratteggiati come vittime, difesi strenuamente, e poi rivelatisi colpevolissimi: nel 1972 fu considerato vittima l’anarchico Giovanni Marini (personaggio tragico, che pure era reo confesso di omicidio). Fu difeso da Dario Fo malgrado avesse accoltellato uno studente del Fuan. Nel 1974 si dipinse come martire persino Roberto Ognibene, che aveva accoppato il maresciallo Felice Maritano (e fra l’altro non si dichiarava innocente!). Nel 1975 si fecero le barricate per due ragazzi, Fabrizio Panzeri e Alvaro Lojacono: appena ottenuta la libertà provvisoria i due fuggirono per arruolarsi uno nelle Unioni comuniste combattenti e l’altro nelle Br (Lojacono coronò la sua carriera a via Fani, col rapimento Moro).
Insomma, al pari di loro (e dei suoi coimputati, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani), Sofri divenne, per l’immaginario di molti, un agnello sacrificale coinvolto in un complotto: gli innocentisti e l’imputato favoleggiarono di una «spectre» che avrebbe coinvolto carabinieri e Pci per incastrarlo! (L’unico appiglio? La presenza al fianco di Marino dell’avvocato Melis, iscritto al partito). E fu un fiume in piena, quella campagna di solidarietà, un’onda che cresceva. Già dalle prime intercettazioni si ricostruì una incredibile ragnatela che teneva insieme gli ex di Lc, il Psi e Cl, ministri, deputati. Tutti in piazza (e nel Palazzo) per Adriano. Persino i dirigenti dei Ds avevano Sofri nel cuore: Massimo D’Alema anche in nome dei trascorsi normalisti (lo andava a trovare in carcere), Walter Veltroni (che lo volle come firma a l’Unità) celebrava i suoi compleanni in Campidoglio e Piero Fassino lo trasformò in un padre nobile nell’ultimo congresso dei Ds. A Montecchio fecero entrare D’Alema in una cella di cartone che riproduceva la «prigione di Adriano». A Roma Lorenzo Jovanotti aprì la raccolta per le firme a modo suo: «Non ho un cazzo da insegnare a nessuno, ma vi chiedo di impegnarvi per Adriano». Tutti convinti dell’innocenza, tutti ammirati per l’unica scelta indubitabilmente coraggiosa, quella per cui Sofri sceglieva di andare in carcere. Il primo governo Berlusconi attraversò persino una mini-crisi perché Ferrara voleva Sofri libero (e consigliava il premier in tal senso) e la Lega (con il ministro Castelli) nemmeno per sogno. Sempre nel 1997, al Palavobis si riunirono tutti gli artisti, Gianna Nannini cantava California e spiegava «Non dobbiamo dimenticarci mai di Adriano». Con lei c’erano i 99 Posse, Daniele Silvestri ed Eugenio Finardi.
In questa settimana, invece, dopo aver tentato di mettere Licia Pinelli contro Mario Calabresi, dopo essersi indignato perché il figlio del commissario era invitato «come vittima del terrorismo» all’Onu (!), Sofri è rimasto solo, nessuno di tutti questi ha parlato per lui. Oggi ha scritto persino a Il Riformista per dire che non sta scrivendo un libro con la Pinelli. Scrive dappertutto, ma non può pubblicare su La Repubblica che è in conflitto di interessi e dunque di questa polemica - per carità di patria - non parla. Non lo difende nemmeno Ferrara. Tacciono gli intellettuali e i leader.

Adriano Sofri è solo: vede Mario Calabresi e lo scambia per il demonio, o per la reincarnazione del padre (che forse per lui è lo stesso). Sofri è solo, è la cosa non è triste per lui. Ma per tutti quelli che in questi anni gli hanno creduto. E ora non lo seguono più.

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