Ora il «soldato Michele» mette paura alla sinistra

«L’Unità» e «Liberazione» accusano Santoro di opportunismo e ambiguità

Luca Telese

da Roma

Chi ha paura di Michele Santoro? Nel grande giorno dell’uomo di Samarcanda, nel giorno delle sue dimissioni da eurodeputato, nel giorno del suo picco di share a Rockpolitik e del suo possibile ritorno in tv, be’, in un giorno così, se questo fosse un Paese «normale» (o anche semplicemente «anormale», come pensano molti antiberlusconiani convinti), questa domanda non avrebbe senso. Del ritorno in onda di Michele Santoro - forse - dovrebbe aver paura il centrodestra ed esser lieto il centrosinistra; mentre a sollevare dubbi sulla sincerità e l’opportunità dei suoi gesti dovrebbe essere chi si ritiene minacciato dalla sua «parzialità» e non chi ha condiviso con lui le battaglie di opposizione e le candidature.
Ma questo non è un Paese «normale». E non è nemmeno un Paese «anormale». Non lo è, almeno nel senso in cui lo pensano i girotondini alla Paul Ginsborg e i riformisti illuminati dei partiti che non esistono: non è un Paese innocente con un centrosinistra estraneo a ogni tentazione poco nobile, e una società civile integerrima, sporcato solo da un unico peccato originale, quello del berlusconismo. In un Paese così, chiedersi chi ha paura di Michele Santoro non avrebbe senso, e invece, nel Paese reale, da tre giorni, a sparare contro di lui e a preoccuparsi del suo ritorno, ad accusarlo di ambiguità ed opportunismo, ad esorcizzarlo con anatemi più o meno garbati, sono quelli che dovrebbero essergli più amici, gli uomini dell’Unione. Possibile? Leggere per credere.
Ad esempio, un conduttore «progressista» come Giovanni Floris, uno che dice: «Sono cresciuto con la sua Samarcanda», ecco, uno così, un discepolo riconoscente, non dovrebbe essere contento? No, non lo è. Ed infatti a Denise Pardo, che lo intervista su l’Espresso, Floris dice: «Lei vorrebbe mettere Santoro in prima serata? Non sarebbe una buona strategia». Caspita. Disagio, gelosia o che? Non sarà mica paura della concorrenza? Chissà. Certo Floris non aiuta a chiarire il dubbio e aggiunge: «Mi toglierebbe il 2 per cento? Vedremo». Un caso isolato? Macché.
E la seconda coltellata arriva dall’Unità. Editoriale critico di Antonio Padellaro, pezzo un po’ maramaldo di Rocco Cotroneo che, parlando dell’addio all’Europarlamento, avverte: «Non lo abbiamo capito». Chi non ha capito Cotroneo, e con lui le masse del suo plurale maiestatis? Ma Santoro, s’intende: «Il giorno in cui si è dimesso non è stato capito da 526.536 elettori che lo hanno votato». E ancora: «I suoi nemici adesso hanno un’arma in più per attaccarlo». E ancora: «Quelli che dicono che è fazioso, dicono che lo ha fatto per prendere parte alla trasmissione di Celentano». E qui l’articolo si fa singolare, perché gli avversari di Santoro hanno formulato tante critiche, ma non queste. E Cotroneo, preso dalla zelo di prevenire e comprendere ogni ipotetica accusa, è il primo a formularne di nuove. Tant’è che conclude: «Non è una buona cosa. È un ingarbugliamento che non doveva verificarsi». Qui uno si chiede: ma Cotroneo sarà così sollecito a dar voce agli elettori «traditi» anche quando a dimettersi saranno i professionisti della politica del partito che edita il suo giornale, quelli che fanno i pendolari tra Roma e Strasburgo ad ogni elezione? Vedremo.
La cosa strana è che anche Milena Gabanelli, l’inchiestista di Raitre, ha sentito il dovere impellente di aggiungere il suo obolo alla campagna ulivista antisantoriana, rivelando a La Stampa addirittura un moto d’insofferenza profonda: «Che fastidio ascoltare Michele!». Possibile? Sì, avete letto bene, fastidio. Perché, dice lei, «da lui mi aspettavo un ragionamento che non c’è stato; perché - aggiunge con una stilettata al cianuro - una persona che si propone come modello, ha il dovere di dire qualcosa di più oltre a “rivoglio il mio microfono”». E infine, come se non bastasse: «Non si può lasciare il dubbio che si diventi politici di professione perché non c’è niente di meglio da fare».
E la sinistra fuori dall’Ulivo? Almeno quella, sarà più affettuosa con Michele? Mica tanto. Al punto che Liberazione apre un dibattito sull’opportunità del «ritorno» con un parere negativo del suo direttore, Piero Sansonetti. Che spiega: «Io dico no. Il servizio pubblico richiede indipendenza». Sansonetti crede «che Santoro abbia sbagliato a farsi eleggere, che sbagli a dimettersi ora, che sbaglierebbe di nuovo se volesse tornare ai ruoli che ricopriva prima». Legittimo, durissimo.
Il fatto è che questa pioggia di critiche fa però riscoprire un dettaglio dimenticato: se Santoro è stato vittima del centrodestra, lo è stato non meno del centrosinistra. Non è un caso che ben prima della vittoria della Casa delle libertà se ne fosse andato dalla Rai per approdare a Mediaset, inseguito da accuse di opportunismo e venalità che venivano (solo) da sinistra e a cui lui rispose addirittura con un libro, ed accenti di grande sincerità nella sua autobiografia provvisoria «Michele chi?» (Baldini e Castoldi). Non è un caso che una delle sue trasmissioni più contestate fu la celebre diretta dal Ponte Branko contro la guerra (tutta dalemiana) in Jugoslavia; non è un caso che nelle ultime puntate dei suoi programmi fosse molto più facile trovare un ospite leghista che uno ulivista. Berlusconi lo chiamò in diretta, a viso aperto, per un duello propiziato dal «cuoco Michele» e destinato a battere tutti gli share; gli uomini dell’Ulivo non lo chiamavano, e preferivano (allora) un garbato boicottaggio.
Ai tempi delle Europee, invece, fecero finta di scordare le vecchie ruggini: di Santoro serviva il carisma, l’appeal, serviva anche il suo microfono per presentare le convention elettorali di Romano Prodi. Così accadde che perfino D’Alema corresse al suo fianco nella lista del sud. Ma ora, nel momento in cui questi 526mila voti raccolti Santoro se li riprende, il gioco non funziona più. Questo non è un Paese «normale», non è nemmeno un Paese «anormale».

È un Paese in cui l’Ulivo, invece di abbracciarlo, presenta il conto al suo martire. Ed è un Paese in cui, forse, Santoro dovrebbe dire ai suoi 526mila elettori che se un regime esiste davvero, un pezzo di questo regime ce l’hanno in casa pure loro.

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