Da Ovidio in poi, la biblioteca è anche un’alcova

Arnaud Delalande, nel suo thriller-storico La trappola di Dante (Edizioni Nord), ci catapulta in una tenebrosa Venezia settecentesca, e ci guida nella Biblioteca dell’aristocratico Andrea Vicario, appassionato di esoterismo, scienze occulte, arti divinatorie e sensazioni scandalose. Dalle rispettabili copertine di marocchino intarsiate in oro spirano le zaffate sulfuree dei breviari satanici, ma anche gli afrori d’alcova dei racconti immorali, come i Travestifughi del parmigiano Tazio di Broggio.
Tutto il mondo è paese. Certi gusti letterari dell’austera città dei dogi (una capitale del libro, grazie alle stamperie Manuzio) fiorivano anche nella Parigi dei filosofi libertini, o nella Londra vittoriana. Le autorità moralizzavano con censure e sequestri, ma copie-pirata, best seller pornografici venduti da ambulanti «sotto il mantello», stampati da editori incontrollabili, come la svizzera Société Tipographique di Neuchâtel che riforniva il mercato francese, garantivano la merce ai cultori del genere. Thérèse philosophe, attribuito a Denis Diderot, era campione di denunce e incassi. Sequestrato una dozzina di volte, riaffiorò in migliaia di copie: amplessi a ripetizione, religiosi corrotti, seduttori di minorenni, il tutto condito da aforismi metafisici, nel segno del piacere sregolato mescolato alla filosofia che era il marchio del libertinismo illuministico.
All’epoca della Restaurazione, in Francia, la Biblioteca Nazionale ospitava scaffali bollenti e proibiti, chiamati Inferno, dove si relegavano le opere che un’estetica alla LaMettrie classificava come écriture voluptueuse, ma che i controllori bollavano alla spiccia come oscene. Vi si trovavano gli scritti di Madame Félicité de Choiseul-Meuse: Julie, ou j’ai sauvè ma rose (1807), le vicende di una giovane che ne assapora di tutte, senza rovinare quella dote che «si può perdere una volta sola», la cui perdita è invece rievocata dalle protagoniste narranti dell’altro capolavoro di questa Erica Jong di età napoleonica, Entre chien et loup («Sul far della sera», 1808), nove castellane che in attesa di mariti e amanti al rientro dalla caccia, inanellano, con schema boccaccesco, i racconti della loro première fois, rigorosamente extra-matrimoniale, adolescenziale e clandestina.
Scrittura rapida, per un pubblico impaziente, che non vuole smarrirsi nei meandri tragici e, a loro modo, pedagogici, di opere d’altro spessore, come Le relazioni pericolose, di Choderlos de Laclos (1782). Se Félicité raccomandava in epigrafe «per leggermi, nascondetevi bene», John Cleland si augurava che il suo libro, Fanny Hill, le memorie di una donna di piacere (1748) fosse «sepolto per sempre»: si diceva che il governo avesse pensionato il licenzioso scrittore perché non cercasse più illeciti guadagni con storie come questa, di una ragazza spregiudicata (il negativo della virtuosa Pamela, di Samuel Richardson) che nella società dei maschi spende ogni sua attrattiva per autoaffermarsi.


Nelle biblioteche di ’700 e ’800, sotto anonime copertine, si celavano anche i classici dell’eros, i greci dell’Antologia Palatina, i Catullo e gli Orazio non purgati e, soprattutto, il maestro dei maestri, Ovidio, che dell’arte di amare aveva messo in versi espliciti i comandamenti più estrosi e piccanti.

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