Palazzo Morando, scrigno d’arte

«BIOGRAFIA» Un nuovo libro illustrato di Skira ricostruisce le vicende del «Museo della Città»

È di straordinario interesse andare a vedere che cosa sia oggi, alla luce degli ultimi lasciti e di una nuova pubblicazione che ne racconta la storia, il Museo di Milano di via Sant’Andrea 6. Istituito nel 1935, trasferito nel 1958 da Palazzo Sormani a Palazzo Morando, lo spazio espositivo ha nel tempo raddoppiato il suo percorso. Al suo interno racchiude una serie di testimonianze iconografiche dei mutamenti avvenuti nel tessuto urbano tra la seconda metà del XVII e i primi anni del XIX secolo. A cura di Roberto Guerri (direttore delle Civiche raccolte storiche) e Paola Zatti, con testi di Bigatti, Mazzocca, Regonelli e Scrima, è stato ora pubblicato un volume riccamente illustrato che ne racconta la «biografia», frutto della collaborazione con l’Istituto per la Storia del Risorgimento e il Comune (Skira, Editore, 225 pagg. 18 euro). Ma vediamo di risalire alla storia delle sue raccolte che comprendono dipinti antichi, statue, oggetti, libri, mobili, arazzi, armature, modellini in marmo come quello dell’Arco della Pace di Beretta, cammei, busti e mappe. Dopo aver salvato alcune opere dai bombardamenti, la contessa Lydia Caprara Morando Attendolo Bolognini, ultima erede di un’illustre casata nobiliare milanese, alla sua morte aveva lasciato in eredità al Comune l’elegante palazzo settecentesco di via Sant’Andrea, dove fino ad allora aveva vissuto, affinché fosse destinato a sede espositiva culturale. Il primo piano, dunque, contiene una raccolta di oltre mille pezzi tra cui anche dipinti, bronzi, porcellane cinesi, di Sèvres e Meissen, nonché maioliche e una ricca biblioteca, compresi alcuni da reperti dell’antico Egitto. Tra le opere più interessanti, dipinti di Gaspare Galliani (Interno del Lazzaretto), Giovanni Migliara (La cura dei cavalli in piazza d’armi) e Domenico Aspari (Il volto della capitale del Regno).

La metropoli moderna si identifica con la Galleria Vittorio Emanuele che Domenico Induno rievoca nel dipinto «La posa della prima pietra» e nei lavori di Giannino Grassi con «Distruzione del magazzino Thonet» del 1915, assieme ad altri capolavori di Beltrame, Carcano e Morelli. Cui si aggiungono le nuove acquisizioni nonchè l’itinerario curato da Sergio Rebora, al quale sono seguiti i lasciti dei Litta, dei Dhò e l’ultimo mecenatismo di Luigi Maino del 2009.

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